Interessante come alcuni percorsi della nuova tonalità abbiano saputo reinventarsi senza cedere alle lusinghe del neoromanticismo, una strada di facili tentazioni, troppo spesso nostalgiche quanto banali, che conduce al passato senza eguagliarlo. O meglio, dipende. Il rischio del cliché, del già detto, del trito e ritrito è sempre dietro l’angolo, soprattutto ora, in piena generazione post-Andriessen, ma è un dato di fatto che quella della minimal music, pur nelle sue infinite diramazioni post-post-post, sia ancora una tendenza (se è possibile, dopo più di quarant’anni, definirla ancora così) ampiamente diffusa, tanto da degenerare nelle proliferazioni più commerciali degli immancabili spot pubblicitari. Ancor più singolare, se non paradossale, il fatto che tutto sia nato da sperimentazioni legate all’ambito della tecnica seriale, se si riconoscono in alcune opere iniziali di LaMonte Young – come il suo Trio per archi (1958) – il germe del minimalismo, con lunghi suoni tenuti per interi minuti o forse, più semplicemente, all’origine di tutto c’è Satie, con la sua musica senza sviluppi e le dinamiche perlopiù statiche.
Come già Steve Reich, Philip Glass e Michael Nyman, tutti autori con i quali il gruppo Sentieri Selvaggi ha collaborato, anche Carlo Boccadoro e Filippo Del Corno hanno deciso di creare nel 1997 il loro ensemble con l’intento di abbattere le barriere che separano le forme e i generi, per proclamare una musica senza confini geografici, né tantomeno stilistici, perfettamente post-post-post, in cui collaborano musicisti jazz – come il vibrafonista Andrea Dulbecco – e altri di estrazione classica. Lo stesso direttore, il pianista e percussionista Carlo Boccadoro, un David Tudor postmoderno, ha lavorato con jazzisti come Jim Hall e Maria Pia De Vito, oltre ad essere autore di diversi libri, tra cui Jazz!, e di Zingiber, il brano che dà il titolo all’intero disco (Cantaloupe Music, 2011). Prese singolarmente le opere di questa raccolta sono tutte estremamente interessanti, specialmente Urban Ring di Carlo Galante e Brightness di Mauro Montalbetti, emergono inoltre per la loro ossessività anche Hume! di Paolo Coggiola e Dogma #6 di Filippo Del Corno, parte, quest’ultima, di un ciclo di vari lavori denominati Dogma e ispirati al manifesto estetico Dogme 95, dei registi Lars von Trier e Thomas Vinterberg, a cui hanno aderito anche Søren Kragh-Jacobsen e Kristian Levring, che prevedeva film, almeno in linea teorica, privi di colonna sonora.
È nell’insieme, forse, che il tutto risulta un po’ troppo omogeneo, appiattito da sonorità forti e aggressive, quasi fauviste, con troppi ritmi martellanti alla Andriessen e riff violenti che picchiano all’unisono nelle orecchie di chi ascolta. Il rischio che si corre è proprio quello di essere ricordati come i figli mediterranei del compositore olandese o peggio ancora di essere confusi con altri seguaci di Andriessen, come Steve Martland o ancor più con il collettivo newyorkese Bang On A Can, o quantomeno di essere associati indistintamente gli uni con gli altri. Nell’album sono presenti anche due protagonisti del nostro recentissimo passato che forse non ci saremmo aspettati: Franco Donatoni e Luciano Berio. Probabilmente la composizione di Donatoni che più si avvicina allo spirito di Sentieri Selvaggi non è Arpège, ma Hot, anche se scritta per un organico differente, mentre l’interpretazione di O King di Berio, che vede la presenza vocale di Cristina Zavalloni, potrebbe essere considerata come un omaggio al maestro italiano che ebbe tra i suoi numerosi allievi sia Andriessen che Reich.
In ogni caso l’approccio di Sentieri Selvaggi è sempre molto informale, probabilmente perché sentono una relazione più profonda con la pop music piuttosto che con il passato classico o le avanguardie del secolo appena trascorso, Third Stream compresa. Lo dimostra anche la collaborazione con Eugenio Finardi nel disco Il cantante al microfono, progetto dedicato al poeta russo Vladimir Vysotsky e vincitore della Targa Tenco 2008.
Paolo Tarsi