
Un viaggio nella musica del XX . A quattro anni dall’uscita del testo in lingua originale – ed a pochi mesi da “Senti questo”– Bompiani pubblica in edizione economica uno dei libri più discussi degli ultimi anni
di Vittorio De Iuliis
UN SUCCESSO CLAMOROSO fatto di lodi quasi unanimi, chissà quanto attese, ha accolto l’uscita di questo libro: tant’è che le citazioni delle recensioni positive non sono relegate, come al solito, a lato della copertina e della quarta, ma anzi riempiono interamente le prime due pagine. I curatori ci informano che il libro è stato finalista per il Premio Pulitzer e ha vinto una sfilza quasi noiosa di altri premi; è stato messo da questo quotidiano tra i primi 10 più belli di quell’anno e da quell’altro addirittura al primo posto; e poi ancora l’Economist ci assicura che “nessun altro critico riuscirebbe a spiegarti così bene perché ti piace un pezzo”. E poi ecco Baricco, certo, ma anche Principe e Bentivoglio, eccetera eccetera. Quindi, caro lettore, stai per leggere un libro magnifico, cerca di fartelo piacere. Bene, “Il resto è rumore” è un bel libro, godibile e affascinante, molto ben scritto, ma non è una storia della musica del XX secolo, come suggerito da Alan Rusbridger del Guardian, la cui recensione è riportata in copertina: “Solo raramente qualcuno scrive il libro che stai aspettando di leggere da tutta la vita; l’affascinante storia della musica del XX secolo di Alex Ross è uno di quelli.” Tutto qui, e questo spiega anche uno dei motivi che ha permesso ad Alex Ross di ottenere un grande successo: una storia della musica del XX secolo più classica, informata, rigorosa, difficilmente avrebbe potuto attirare una schiera immensa di lettori e appassionati. Il libro di Ross è il racconto di una personalissima storia d’amore con parte della musica del XX secolo, fatta di grande passione, che in nessun modo, ad onor del vero, cerca di apparire per ciò che non è, ovvero un testo storiografico completo. Seguendo il filo conduttore letterario del “Doctor Faustus” di Thomas Mann, Ross ci conduce nel Novecento partendo dalla Salome di Richard Strauss, filo conduttore musicale del racconto, trascinandoci dall’Europa fin de Siècle XIX agli Stati Uniti end of the century XX. L’approccio cronologico consta di quattro principali periodi: l’inizio del Novecento, il periodo tra le due guerre, il secondo dopoguerra e gli anni successivi alla guerra fredda.
Accanto alla Vienna dei primi del secolo e degli Stati Uniti del New Deal, ecco il racconto politico e culturale della Germania nazista e della Russia stalinista, seguito da un’escursione nella Finlandia di Sibelius, fino ad arrivare alla Darmstadt degli anni cinquanta, e poi i sessanta e settanta. Infine Ross ci porta da Britten, nelle isole britanniche, per poi concludere il viaggio negli Stati Uniti della contemporaneità. Già: gli States. Una delle principali pecche (o dei principali meriti, forse) ascrivibili a Ross è l’eccessivo focus che egli riserva a taluni argomenti, tralasciandone invece altri fondamentali. La musica degli Stati Uniti viene sezionata in profondità ed occupa una cospicua parte del libro. Allo stesso modo, Ross non fa nulla per celare la sua preferenza per tre compositori in particolare: Shostakovich, Sibelius, e Britten.
Ora, Šostakovič è parte del filo conduttore che Ross segue per affiancare la storia politica e sociale del secolo allo sviluppo musicale, e dunque merita lo spazio che l’autore gli riserva. Nessuno (o quasi) negherebbe la grandezza di Sibelius e Britten, ma il numero di pagine che Ross dedica loro (due capitoli interi), è chiaramente sproporzionato all’importanza che essi hanno avuto nella storia della musica del Novecento. D’altro canto, Ross riserva alcune belle pagine a compositori spesso ritenuti a torto “minori” (si pensi a Janáček, ad esempio). Per comprendere meglio la disparità di trattamento, basti pensare alle sette pagine dedicate a Ligeti, o alle poche destinate a Webern, citato qua e là ma mai davvero approfondito. E se bene è andata a Messiaen (uno dei compositori più approfonditi), Ross ha riservato un buon trattamento anche ad alcuni dei suoi allievi: Nono, Stockhausen e Boulez; peggio è andata a Maderna, citato solo di sfuggita, e a Berio, che a dire il vero sembra introdotto solo come punto di contatto con gli esperimenti elettronici di Stockhausen. Restando all’Italia del dopoguerra, Ross cade nell’assoluta mancanza di riferimenti a Donatoni, Clementi e Castiglioni. D’altra parte, per quanto concerne gli ultimi decenni del Novecento, l’autore dedica molto spazio a John Cage, ma poco a Xenakis; ci introduce con grande dettaglio al minimalismo americano di Reich, Riley, Glass ed Adams (ma anche a Pärt in Europa), trascurando invece di approfondire degnamente lo spettralismo (per il quale vengono citati solo incidentalmente Dufour e Grisey, ma è clamorosamente tralasciato Romitelli), musica concreta e nuova complessità (Lachenmann e Ferneyhough sono a mala pena citati). Tra le caratteristiche negative di Il resto è rumore spicca anche la scarsa capacità di esplorare l’intera opera dei vari compositori, e soprattutto di quelli maggiormente approfonditi. Accade così che di Stravinskij, che accompagna il lettore dall’inizio alla fine del libro, Ross ci fornisca un ritratto poco in grado di testimoniare quanto sia stata profonda la sua evoluzione musicale. Ne vengono sì tracciati i principali sviluppi, ma alla fine della lettura non si capisce davvero se Ross reputi Stravinskij fondamentale (come si tenderebbe a dedurre dalla quantità di riferimenti che egli riceve), oppure no.
Allo stesso modo, nel lungo capitolo dedicato a Britten si parla quasi unicamente del Peter Grimes; della musica di Mahler Ross quasi si dimentica e di Sibelius racconta qualcosa sulle sinfonie e poco più; di Bartók, importantissimo, si limita a citare qualche capolavoro. Peccano forse di presunzione alcune pagine che Ross dedica all’intreccio tra classica e jazz negli Stati Uniti di fine Ottocento e inizio Novecento: in un lungo capitolo l’autore parte dal breve periodo trascorso da Dvořák in quel “nuovo mondo” narrato nella celebre sinfonia (più ricca di nostalgia per le radici europee che di temi americani, a dire il vero), per poi sottolineare quanto, a suo avviso, l’esperienza di Dvořák abbia segnato lo sviluppo della musica americana del Novecento, da Gershwin a Ellington.
Personalmente, ho trovato poco riuscito, nel capitolo dedicato a Britten, il passaggio nel quale Ross sottolinea come molti dei più importanti compositori del Novecento fossero omosessuali: un’affermazione piena di orgoglio (Ross è dichiaratamente omosessuale) e probabilmente di intenzioni unicamente positive, che tuttavia risulta involontariamente quasi discriminatoria. Eppure, come dicevo, le quasi novecento pagine di Il resto è rumore si leggono molto volentieri, a tratti tutto d’un fiato. Il merito va allo stile scorrevole e incisivo dell’autore, ma anche alla capacità di rapire il lettore con il racconto di gustosissimi aneddoti e di alcune pagine private che ruotano attorno ai rapporti personali tra i compositori più importanti (Britten e Shostakovich, ad esempio, ma anche Mahler e Strauss, Stravinskij e Schönberg o Cage e Boulez). Se è vero che a tratti la musica passa quasi in secondo piano, schiacciata tra il racconto della cornice storica e degli intrecci personali tra i protagonisti, è anche vero che un approccio più rilassato e informale di questo tipo finisce per presentare un’immagine della musica moderna e contemporanea più vicina all’ascoltatore comune, meno fredda e distaccata di quanto potrebbe emergere da un testo rigoroso e approfondito.
Un’altra notevole caratteristica positiva è la ricchezza della cornice culturale e storiografica che arricchisce alcune parti del racconto e che permette di cogliere nel dettaglio il senso e la portata delle opere di alcuni compositori (molto interessante, ad esempio, il racconto della genesi delle opere di Berg, Wozzeck e Lulu, o la narrazione dei sodalizi artistici tra Weill e Brecht, o tra Britten, Auden e Pears). Infine, una nota di merito va senz’altro all’appendice dedicata ai suggerimenti bibliografici e discografici dell’autore, che peraltro non si limitano alla carta, ma prendono forma in una interessante audio-guida sul suo blog personale. Concludo sottolineando alcune vistose imprecisioni nella traduzione italiana del testo: accanto a comuni errori tipografici ve ne sono altri che fanno pensare che il traduttore del testo non abbia ricevuto una accorta consulenza musicologica («il pianista Mitsuko Uchida» è il più divertente tra essi).
Un libro che fa rimpiangere ai profani del pentagramma come me, di non saperne almeno un po’ di più in fatto di scale, accordi, tonalità, ecc…, ma che riesce ugualmente, con garbo e leggerezza,a far loro intuire il senso delle riflessioni più tecniche e capire quel che, prendendo in mano il libro, si aspettavano di capire..