[wide]
[/wide]
Su Musicalmente, il Magazine dell’Orchestra da Camera di Mantova (anno 8, n. 2, marzo 2012) è stata recentemente pubblicata una breve inchiesta (a cura di Patrizia Luppi) che riproponiamo ed ampliamo per i nostri lettori, sperando di sollecitare interesse e dibattito a proposito di un argomento per molti ancora controverso
di Patrizia Luppi
L’ha dichiarato anche Elio, in un’intervista di poche settimane fa: oggi «il confine tra classica e popolare è più sfumato. I due mondi si avvicinano». Le parole del poliedrico leader delle Storie Tese, diplomato in flauto a Milano e protagonista in un paio di occasioni del teatro musicale di Azio Corghi e di Luca Lombardi, toccano un interrogativo molto attuale: ha ancora senso parlare di contaminazione dopo tutta l’acqua che è passata sotto i ponti della musica, soprattutto dagli ultimi decenni del Novecento in poi? Lo chiediamo a musicisti e compositori contemporanei differenti per formazione e linguaggio.
(nuovi contributi, per invito e/o accettazione, a info@ilcorrieremusicale.it)
Giorgio Colombo Taccani: sintesi severa e attenta, che sarà ben più dell’orchestrazione dei “soli” di Hendrix
Le differenze esistono, in musica come altrove. Negarle rappresenta spesso il primo passo verso esiti pessimi. Significa negare l’esistenza dell’altro da sé, negare la possibilità di un rapporto, di un reciproco influsso, di reazioni alchemiche impreviste, dando invece vita a poltiglie superficiali e indistinte, grondanti nostalgia di bei tempi andati, tailleurs e giri di do. La consapevolezza di sé e dell’altro porta ad aprirsi, come è, a quel punto, inevitabile. Porta anche a mettersi pesantemente in discussione, a scoprire come non esistano torri d’avorio o verità immutabili. Le orecchie e gli occhi possono correre in ogni direzione e cercano sempre di farlo anche se li incateniamo con il sedativo potente delle abitudini e delle convenzioni. A noi – un “noi” quanto più esteso possibile – spetta la sintesi severa e attenta, che fortunatamente sarà ben più dell’orchestrazione dei soli di Jimi Hendrix o della presenza colonialistica di qualche citazione “bassa”. Sarà ad esempio scoprire altrove l’attenzione alla fisicità del suono che molta musica contemporanea ha perduto. Sarà farsi stimolare dall’esperienza improvvisativa. Sarà la sintesi visionaria di Fausto Romitelli. Sarà anche non dimenticare che qualcuno dovrà pure ascoltarci. Una felice, radicale impurità.
Carlo Alessandro Landini: un po’ di “radicalità” farebbe bene a tutti noi, compositori compresi ed esecutori non esclusi
Mi sono talvolta chiesto che cosa avesse spinto Ennio Morricone ad abbandonare il cammino intrapreso con Evangelisti, Macchi, Guaccero, Clementi ed altri negli anni Cinquanta (penso ovviamente a Nuova Consonanza) per dedicarsi quasi unicamente alla composizione di colonne sonore. Ecco un illustre esempio di contaminazione (fra lo stile alto dell’accademia, o della ricerca, e quello dell’entertainment business). Forse per il fatto che, come Schönberg scrive nel 1946, le persone “love to pay less than it is worth”, sono felici di pagare meno del prezzo (e di ascoltare, ma anche di comporre, senza troppa fatica). Ciò vale anche per i pontefici del genere lieve, popolare ma a suo modo impegnato, dei cantautori: è per lo stesso motivo che il compianto Lucio Dalla con Tosca e Riccardo Cocciante con Notre-Dame (15 milioni di spettatori, un milione di volte quello raggiunto da un normale concerto di musica contemporanea) hanno mirato in alto, cercando di fondere la vena pop-melodica con il contrappunto accademico e dotare entrambi di una forma scenica adeguata, nella migliore tradizione verista. Personalmente – so bene che qualcuno arriccerà il naso, essendo invalso l’uso, fintamente politically correct, di un ecumenismo culturale che equipara la world music e il genere fusion, figlio della New Age, ai sincretistici belati di Assisi o di sant’Egidio a Roma, dove tutte le fedi sono le benvenute, e guai a formulare una riserva sotto qualunque forma: si passa subito per facinorosi leghisti, duri e puri – mi trovo molto più a mio agio nell’immaginare che il canone occidentale e colto, musicale ma non solo, non abbia affatto esalato l’ultimo respiro sotto la bomba di Hiroshima e con le devastazioni dell’ultima guerra (dopo Auschwitz, come è noto, non si può più scrivere poesia: ma Adorno non sempre, per fortuna, aveva ragione). Mi trovo invece a sperare, in assoluta controtendenza rispetto alla maggior parte dei miei colleghi, che un genere, uno stile, un’idea, un linguaggio, anziché cambiare ogni dieci o quindici anni, come la cassandra Schönberg riteneva, possano dimostrarsi in grado di reggere per molte generazioni, forse per l’arco di secoli. Regalando, in tal modo, una voce e un corpo credibili a una civiltà che noi vorremmo al suo apogeo (e non già al suo tramonto). E senza, soprattutto, una scadenza come ce l’hanno i latticini e la carne di tacchino allineati sugli scaffali dei supermercati. Una tassonomia fondata su generi, e su giudizi di genere, come quella invalsa nell’epoca fra le due guerre e che nel filone della grande critica crociana dei Ronga, dei Pannain, dei Torrefranca trovò la sua espressione più consona, costituirebbe oggidì un antidoto non disprezzabile, credo, alla tossica, scandalosa omologazione e integrazione di tutti, apocalittici compresi, in nome di un ebefrenico volemose bene. Che è molto spesso il frutto, io temo, di un qualunquismo e relativismo morale prima ancora che culturale, e che affonda le sue incancrenite radici in una radicale ignoranza, più che negazione, della Storia. In conclusione, un po’ di ritrovata “radicalità” (in salsa di Rognoni, con o senza trifole) farebbe bene a tutti noi, compositori compresi ed esecutori non esclusi.
Martino Traversa: filtrare le culture musicali è naturale, elevare a sovrastruttura concettuale l’idea della contaminazione è perdita di tempo
In tutta sincerità non ho mai compreso quel mediocre dibattito intorno alla cosiddetta “contaminazione”, che da oltre dieci anni ha visto una nutrita sfilza di addetti battersi, talvolta con grande veemenza, a sostegno di questo nuovo modo di intendere la creatività, soprattutto in ambito musicale. Le nuove forme di contaminazione nell’arte ci sono state presentate come una sorta di passaggio obbligato, estremamente trendy e perfettamente in linea alle meravigliose tendenze della globalizzazione, verso un rinnovamento nel modo di concepire e ri-pensare, nel nostro specifico, la musica del futuro. E’ stato come assistere a una liturgia new-age sulla speranza ultima di trovare la chiave di volta per una nuova visione del mondo. L’occasione era troppo ghiotta per non essere utilizzata (o, forse, sarebbe meglio dire strumentalizzata), soprattutto da parte di coloro che, per motivi che a molti di noi appaiono sinceramente incomprensibili, hanno sempre manifestato insofferenza verso un certo tipo di linguaggio musicale, nello specifico quello della musica contemporanea. Il nuovo paradigma della contaminazione poteva consentire a questi “visionari”, paladini della nuova “democrazia musicale”, di tentare di annullare l’universo delle differenze, aspetto peculiare della storia delle culture musicali dell’intero mondo, a favore di un modello più orizzontale, nel quale non fosse più un problema mettere a confronto lied e canzonette, quale che fosse l’autore, e la tradizione culturale dalla quale l’opera stessa scaturisce. Ecco quindi che, nel nuovo mondo così delineato, tutto risulta essere possibile. (Una rappresentazione, questa, perfettamente in linea con l’immagine del mondo che ci riconsegna la pubblicità.) E allora perché non chiedere a un rapper di orchestrare una fuga di Bach, o a un dj del Bronx di comporre un madrigale, ed eventualmente a percussionisti del Ghana di cantare i cori degli Alpini? Inoltre, se ciò non bastasse, si potrebbe poi eventualmente centrifugare il tutto (Cage perdoni l’impudenza!), in modo da ottenere una sorta di frullato musicale, elevando a potenza l’entità della contaminazione prodotta. Nulla di più inutile e insensato. Chiunque di noi vive in questo mondo “respira” già quello che non è proprio della nostra tradizione culturale, e questo è un bene. Non è un fatto nuovo, e tantomeno ci sorprende. Anzi, possiamo affermare che, per molti versi, è stato sempre così; basterebbe soffermarsi sulle composizioni di musicisti come Debussy, Messiaen, Boulez, Stockhausen, Scelsi, Cage, oppure, in senso ancor più generale, osservando le architetture delle nostre città d’arte per rendersene conto. Conoscere le diverse culture musicali, filtrandone attraverso la propria sensibilità gli elementi più caratteristici e peculiari, è un fatto naturale, in quanto insito nella natura dell’uomo. Sforzarsi nel goffo tentativo di elevare a sovrastruttura concettuale l’idea della contaminazione è solo una perdita di tempo.
Massimiliano Viel: si tratta di un falso problema
In musica come nella vita in genere, è inevitabile incontrare chi invoca l’eredità di una purezza, spesso aiutato dall’incapacità di riconoscere differenze là dove un tempo si davano invece citazioni o suggestioni ormai dimenticate. All’opposto, l’energia creativa, anarchica anche quando viene costretta da una tecnica spietata, si nutre di tutto quanto appartiene al mondo in cui viviamo, che lo vogliamo o meno. La ricerca artificiale della purezza è dunque figlia di un mondo negato così che non esiste musica incontaminata, ma solo musica “in maschera”, che mostra il mondo a cui appartiene nel modo in cui un volto deformato dal lifting e dal botulino mostra lo scorrere del tempo. Si tratta dunque di un falso problema, che nasce dall’urlo di orrore di chi si accorge che l’incantesimo faustiano di fermare il tempo ancora una volta non è riuscito e finisce con interpretare rabbiosamente la propria sconfitta come putrefazione. Ma l’infanzia, abbandonati i lontani ricordi felici, non è finita e ancora ci lascia giocare con i suoni, se lo vogliamo, con curiosità e con umiltà, senza guardare al domani.
Renato Rivolta: è possibile solo conoscendo profondamente, strutturalmente, i linguaggi e sapendo fare sintesi
Impossibile riassumere in poche righe ciò che meriterebbe ben altro spazio. Personalmente ho un duplice atteggiamento sulla “contaminazione” (meglio, fecondazione) tra diversi linguaggi musicali. Da un lato trovo obsoleto il dibattito, e se vogliamo anche sintomo del costante ritardo provinciale dell’Italia nelle cose della Cultura: sono passati quasi 50 anni dalla pubblicazione di Apocalittici e integrati di U.Eco (che già era una specie di stato dell’arte postumo, rispetto a fenomeni già da tempo presenti), e ancora pare che il tema non sia stato definitivamente assimilato e digerito dagli intellettuali italiani. Dall’altro lato, vedo chiaramente i pericoli derivanti dalla ibridazione acritica e artificiosa tra linguaggi appartenenti a culture eterogenee, compatte, e spesso difficilmente conciliabili: ibridazione che spalanca le porte a una subcultura globalista, potenzialmente funzionale all’interesse economico del mercato capitalista. E’ vero che il rapporto con culture altre ha sempre, inevitabilmente, fecondato la Cultura accademica (Alta, o Classica, o come la si vuole chiamare): uno per tutti, Debussy (e più tardi, Boulez) e il gamelan. Ma per rendere veramente fecondi tali incroci genetici bisogna: a) conoscere profondamente, strutturalmente, i linguaggi che si usano; b) essere capaci di integrarli in una sintesi superiore che ne valorizzi e potenzi i punti di forza. E ciò, sfortunatamente, avviene molto di rado. Il resto, è quasi sempre fuffa postmoderna.
Fabrizio De Rossi Re: la globalizzazione mi esalta, purché di qualità
Autore versatile per preparazione e orientamento, opera dei distinguo: «Altrove, in particolare nel mondo americano (ma non solo), la scena musicale è pronta ad appropriarsi di qualunque linguaggio musicale e a ricodificarlo, dall’improvvisazione al jazz, alla contemporanea, al noise, al rock, alla musica popolare, alla musica per cartoni animati. Oggi per fortuna qualche segnale di rinnovamento si affaccia pian pianino anche nel nostro museale e sonnolento mondo europeo. Devo dire onestamente però che l’Italia in questo momento mi pare creativamente più interessante e libera rispetto ad altri paesi europei ancora talvolta profondamente segnati e mummificati dal dogma della musica contemporanea “difficile e complessa” dell’immediato dopoguerra. Personalmente, questa caotica e dissacrante globalizzazione musicale mi esalta, purché sia di qualità», conclude De Rossi Re. «Me ne rendo conto viaggiando in macchina. Programmo anche nello stesso viaggio un pezzo di musica popolare calabrese, poi un paio di Variazioni Goldberg di Bach, una canzone di Mina e magari un paio di cantate di Alessandro Scarlatti… e arrivo a destinazione».
Silvia Colasanti: incontro di culture con la consapevolezza dei materiali usati
Silvia Colasanti ha la particolarità di essere una compositrice di sicuro e crescente successo in un mondo ancora dominato da personalità maschili: «Se la musica è tradizione, il suono del presente rappresenta sempre più l’incontro di culture», sostiene. «Ci sono compositori che ne fanno un fondamento estetico e altri che, vivendo nel presente, proprio per questo assimilano generi differenti». Lancia però un avvertimento: «Molto spesso si usano materiali “altri” senza conoscerne la sostanza e la memoria, con una superficialità che io trovo abbastanza sterile. Pensiamo invece, per fare solo un esempio, a un autore come Takemitsu: nel suo caso, l’uso di certi stilemi occidentali ha un senso profondissimo. In definitiva, a me interessa la contaminazione, ma solo quando c’è consapevolezza di ciò che si incontra, della sua cultura e della sua memoria»
Adriano Guarnieri: oggi non parlerei più di contaminazione, ma di un travaso che trovo interessantissimo tra un genere e l’altro
Secondo Adriano Guarnieri, l’autore di Medea e di Pietra di diaspro, «siamo in una fase di superamento molto importante. Si sta recuperando il senso della pagina che elabora dal punto di vista colto anche le altre cifre. Oggi non parlerei più di contaminazione, ma di un travaso che trovo interessantissimo tra un genere e l’altro, senza più barriere e steccati». Il quadro che si compone è nel complesso molto dinamico e apre orizzonti affascinanti. «Fino a una decina d’anni fa», rammenta Guarnieri, «ascoltando certe pagine si avevano dei sussulti, perché ancora si operavano delle separazioni, delle identificazioni rigide. Ora invece la percezione è svettata e sta avvenendo una sorta di osmosi linguistica; forse non è ancora matura, ma la strada verso il sincretismo è segnata. D’altronde siamo in un passaggio epocale e la musica rispecchia la nostra società sempre più globalizzata».
Ivan Fedele: fecondazione fa pensare alla vita, contaminazione invece alla malattia e alla morte
«Credo che siamo ormai in una fase posteriore rispetto a quella in cui il concetto di contaminazione cominciò a manifestarsi per esprimere una varietà di incroci stilistici ed estetici», afferma Ivan Fedele, da poco nominato direttore del Settore Musica della Biennale di Venezia; «musica etnica, jazz, rock: i compositori manipolavano di tutto con esiti più o meno convincenti, mentre le nuove tecnologie e l’elettronica si affacciavano nel campo della musica pop, operando non un intreccio di linguaggi, ma solo una sovrapposizione». Fedele ricorda Luciano Berio quando, già negli anni Cinquanta, si riferiva a «un materiale comune, che è quello che usiamo, ma con obiettivi e forme che possono essere molto diversi». E continua: «Per evitare distinzioni che fossero troppo settoriali e discriminanti, si è fatta una confusione ideologica; ma la musica non è una, le musiche sono tante e possono servirsi degli stessi suoni. Ogni musica, peraltro, ha dignità e personalità, la diversità non dovrebbe essere vista in maniera discriminatoria né fare paura. Per me, anzi, la varietà di stili e orientamenti è molto bella. Eviterei ormai il termine contaminazione, per usare piuttosto coniugazione o, meglio ancora, fecondazione: questa fa pensare alla vita, contaminazione invece alla malattia e alla morte».
Dice proprio bene Ivan Fedele: la parola contaminazione ha a che fare con una malattia, o peggio con un irreparabile incidente nucleare…
A tal proposito vorrei metter in evidenza alcuni aspetti che secondo me mostrano la debolezza della musica oggi. A partire da quello che dice Elio, persona che stimo e seguo come artista di cabaret, ma che trovo fuori ruolo nelle vesti di attore o di musicista “classico”: non si tratta di una questione ideologica, si tratta di affermare (o riaffermere ancora una volta) che bisognerebbe fare solo quello che si sa fare. Siamo invece nel tempo in cui chi canta, scrive un libro o fa un film, solo per il fatto che il suo successo gli permette di imporre tale scelta (e il suo conseguente prodotto). Elio viene coinvolto in contesti “classici” non perché è un bravo attore (non lo è) né perché è un grande cantante e musicista (non lo è): viene coinvolto perché famoso e questo permette di portare avanti spettacoli o concerti che altrimenti organizzatori ottusi non programmerebbero nei loro festival, convinti -chissà perché?- che altrimenti il pubblico non andrebbe a vederli. E qui che veniamo alla debolezza della musica, una musica che non è in grado di affermarsi per se stessa ma ha bisogno di uno specchietto per le allodole: la voce del cantante famoso, le illustrazioni e i video, qualcosa di accattivante che catturi il pubblico e lo faccia sentire “a casa sua”, presentandogli volti noti o contenuti considerati più accessibili, in base a una legge del progressivo semplificare che ci ha portato all’attuale barbarie. Se oggi in Italia ci sono giovani universitari che non sanno chi è Beethoven, o la differenza tra una Sinfonia e un’Opera, o cos’è un fagotto o un violoncello, è perché forse abbiamo pensato che non gli si dovesse proporre Beethoven ma piuttosto trovare delle forme di compromesso, di contaminazione… Invece l’unica contaminazione dovrebbe essere la capacità del musicista (dico: a partire da Maurizio Pollini, ricordiamo quando andava nelle fabbriche a suonare il Quinto di Beethoven…) di parlare al pubblico (proprio al pubblico nesciente, quello che non sa che differenza c’è tra un violino e un contrabbasso) e dirgli quale meraviglia sia il far musica. Ci sono due condizioni necessarie per fare questo: un pubblico vero, vivo, non a quello disegnato che spesso vediamo nei teatri italiani e che ascolta la musica come quando visita un museo, un pubblico che sappia e sappia scegliere. Secondo: il musicista, anche lui possibilmente vivo, convinto di quello che suona (perché se lui stesso non crede a quello che fa, come potrà mai convinvcere il pubblico di questo?). Ricordo qualche anno fa a Firenze a cura del gruppo Nuovi Eventi Musicali un importante esperimento: Radiohead e Gubaidulina programmati a fianco, un concerto pieno di giovani, ma nessuna contaminazione, se mai la giustapposizione di due esperienze artistiche provenienti da due mondi culturali diversi anzi opposti. Purtroppo mentre questa emorragia di cultura continua, nella prima classe del Titanic si cerca di edulcorare tra gli addetti ai lavori il naufragio evidente di cui facciamo parte e forse siamo causa. L’incontro tra linguaggi lo ha già messo in atto cento anni fa, e in quella direzione molte cose sono avvenute, ma non mischiamo cose tra loro non assimilabili: chiamare una star della tv per fare musica ha uno scopo puramente commerciale, l’arte non c’entra nulla, e non c’entra nulla la contaminazione, tranne il fatto che forse da sana che era la musica è diventata malata.