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Tre domande alla giovane e affermata violinista che ha recentemente registrato l’integrale dei Capricci, al suo debutto per l’etichetta Deutsche Grammophon. In un fitto calendario di concerti suonerà in novembre anche a Mosca e San Pietroburgo
di Simeone Pozzini
P unto di arrivo o di partenza? Paganini è l’autore ingombrante che ogni violinista ama e odia, il compositore inevitabile. «Sapevo anche di avere qualcosa di personale da dire su questo repertorio, di essere convinta della mia interpretazione». Francesca Dego è nata nel 1989, madre americana di San Diego, dove ha passato alcuni anni dell’infanzia, il padre scrittore. È cresciuta nella piccola cittadina di Colico, in provincia di Lecco, prima di trasferirsi a Milano. Oggi fa parlare di sé anche al di fuori degli ambienti della classica, il suo glamour arriva fino alla rivista F, la sua passione per la moda è citata da Famiglia Cristiana, Marzullo la invita in uno dei suoi obliqui notturni. Ma a noi interessa l’aspetto musicale, e la Dego è a tutti gli effetti una interprete di prim’ordine: suono, intonazione, musicalità, tecnica. Esordire nel panorama discografico internazionale con i Capricci rappresenta sicuramente una sfida totale. A proposito di debutti con repertori virtuosistici, e ammesso che il paragone abbia senso, Pollini registrò l’integrale degli Studi di Chopin – che aveva in repertorio fin dall’adolescenza – nel 1960, subito dopo la vittoria del concorso Chopin, ma non autorizzò mai quella registrazione (ora pubblicata da Testament) e il suo debutto discografico avvenne con lo chopiniano Concerto op.11 in mi minore. Accardo, grande sostenitore e uno dei docenti della Dego, aveva in repertorio i Capricci fin dal 1954; ci dicono le date sui cataloghi che solo nel 1977 apparve la sua nota registrazione per DG. Il punto, sia chiaro, non è la stucchevolezza del repertorio, benché i dischi, si sa, nell’epoca della fruizione liquida e del peer to peer non riescano a sostenere i numeri del passato, e quindi risultino più appetibili con le integrali e i grossi titoli. No, non conta solo questo. Non in questi termini. Il percorso della Dego con Paganini ha motivazioni, lei ci racconta, antiche e personali. «Lo studio quasi maniacale necessario anche solo per resistere allo sforzo muscolare mi ha aiutato in passato a maturare, sperimentare e conoscere meglio me stessa».
Per il suo debutto con la DG lei ha scelto i 24 Capricci. Come si affronta, oggi, questo testo?
«L’esecuzione dei Capricci e della musica di Paganini è sempre stata oggetto di controversie e scontri tra diverse scuole violinistiche. Il fatto che Paganini stesso in concerto improvisasse e variasse di volta in volta le proprie esecuzioni è diventata una “scusa” molto sfruttata per eseguire la sua musica senza un minimo di rigore filologico, basandosi solo sulla base virtuosistica per costruire l’interpretazione e dimenticando del tutto le basi storiche e musicali del linguaggio paganiniano. Tutte le edizioni tra Otto e Novecento presentano tali imprecisioni da risultare spesso completamente diverse dall’originale. Col tempo poi questi “errori” sono diventati prassi esecutiva, talmente radicati nella tradizione che staccarsene non risulta sempre facile! La svolta è arrivata con l’approccio innovativo di Salvatore Accardo che ha avuto il coraggio di rivoluzionare il modo di vedere l’opera paganiniana: non più come semplice raccolta di “esercizi ginnici” ma come testamento di un compositore che ha rivoluzionato non solo il violino, ma l’intera concezione strumentale e compositiva del Romanticismo. Accardo ha portato finalmente al pubblico, e nelle sale d’incisione, la fedeltà in ogni dettaglio al volere dell’autore, e la sua edizione dei Capricci è diventata di riferimento per tutti. Bisogna infatti ricordare che prima di essere un compositore-virtuoso Paganini era un compositore italiano negli anni di massima fioritura del belcanto nel nostro paese (Rossini disse che era una fortuna che Paganini non scrivesse opera perché sarebbe risultato il migliore). Nella sua musica il lirismo italiano è portato ai massimi livelli, il violino si fa voce umana in tutte le sue sfumature. Il mio approccio alla raccolta paganiniana par excellence è basata su queste considerazioni: lo studio accurato dello spartito a livello strutturale e non solo strumentale, il legame profondo con il teatro e i suoi personaggi spesso caricaturali ma altrettanto spesso drammatici e profondi, e l’enorme responsabilità di trasmettere la mia visione e le mie idee senza distaccarmi dall’articolazione e dai tempi scritti (praticamente sempre malamente storpiati fino alla “rivoluzione” accardiana). Ho tentato comunque di dare un tocco di freschezza e di gioia di suonare a quella che, secondo me, è una raccolta mastodontica, formata però da tanti gioielli, piccole miniature musicali che esplorano l’intera tecnica violinistica e tutte le forme tradizionali (dal minuetto al rondò, dall’aria al tema con variazioni)».
L’insieme dei Capricci offre spunti timbrici molto interessanti. La ricerca di sonorità verso dove si spinge e si può considerare superata?
«Purtroppo rispetto al passato oggi la tendenza generale all’omologazione si rispecchia anche in campo musicale, e nello specifico a livello di suono. Si ricerca un ideale di pulizia spesso basato su dischi fatti in studio e quindi non sempre realistici. Abbiamo sicuramente perso molto del carattere sonoro che era spesso legato anche alla scuola o al paese di provenienza. Assistendo ad un concorso di violino si ha spesso l’impressione che i Capricci sembrino tutti “uguali”, mentre quando si ascoltano i dischi di Oistrakh, Heifetz, Milstein, Stern, Kreisler, Francescatti, Grumiaux, Perlman e Accardo ci si rende conto che il loro suono è cosí individuale e carico di personalità da risultare immediatamente riconoscibile. Tentando di percorrere una strada più “autentica” ho deciso tra l’altro di incidere i Capricci in un’acustica naturale, quella splendida dell’Eremo di Ronzano a Bologna, per cercare di nuovo il rapporto diretto con chi ascolta, senza intervenire sul suono in sede di editing e mastering. Sono sicura che l’ambiente asettico di una sala d’incisione avrebbe appiattito la bellezza del suono dello strumento incredibile che ho la fortuna di suonare (il Guarneri del Gesù appartenuto a Ruggiero Ricci, grandissimo interprete paganiniano) e reso vani i miei tentativi di variare e rendere personali i timbri. Effettivamente i Capricci si prestano molto a questo tipo di ricerca, presentando così tanti spunti musicali diversi tra loro (dalla cornamusa del 20 alla richiesta di Paganini stesso di imitare corni e flauti nel 9; dall’Agitato frenetico del 5 all’etereo 6, un tremolo che sembra infinito e che ho sempre trovato estremamente suggestivo soprattutto se eseguito veramente Lento e piano come da indicazione di Paganini; dall’Amoroso 21, un vero e proprio duetto operistico, all’Andante dell’11, che sembrerebbe scritto da Bach!). Una sfida, insomma, quella di caratterizzare ogni capriccio, mantenendo però sempre in mente la grande linea che sembra legare e rendere un unicum la raccolta».
Perché ha scelto di esordire discograficamente con questo repertorio?
«Ho sempre avuto il desiderio segreto di misurarmi con questa impresa enorme. Fin da quando ho cominciato a studiare i miei primi Capricci (a 10-11 anni) ho avuto la sensazione che un giorno li avrei suonati tutti. Mi sembrava in assoluto il più grande banco di prova per un violinista (teoria che non ha fatto che corroborarsi con gli anni). Quando qualche anno fa ho cominciato ad eseguirli tutti in pubblico mi sono accorta che nient’altro mi dava quel senso di sfida estrema con me stessa, a livello fisico e psicologico. Lo studio quasi maniacale necessario anche solo per resistere allo sforzo muscolare mi ha aiutata in passato a maturare, sperimentare e conoscere meglio me stessa. Insomma, da quando ho cominciato a suonare Paganini non ho più smesso e l’ho amato e odiato profondamente. È stato quindi praticamente naturale decidere di accettare l’enorme sfida di inciderli, per di più per Deutsche Grammophon, casa delle storiche incisioni di Accardo e Mintz. Sapevo anche di avere qualcosa di personale da dire su questo repertorio, di essere convinta della mia interpretazione, che in questo momento mi rappresenta come esecutrice. Forse non potevo scegliere nulla di più “pericoloso” come disco di esordio, ma sono convinta che sia la summa del mio percorso. E la soddisfazione di tenere in mano il cd è enorme, perché dentro c’è tutta me stessa».
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