di Ilaria Badino
Giulio Cesare è il frutto più pregiato del giardino delle delizie händeliane: perfettamente maturo, denso di musica inebriante che germina dal flusso dell’azione non conoscendo momenti di minore ispirazione, in straordinario equilibrio tra la dolcezza pastosa eppur leggiadra di alcuni brani (il duetto conclusivo del prim’atto Sesto-Cornelia «Son nata a lagrimar», «Se pietà di me non senti» e «Piangerò la sorte mia» di Cleopatra) e l’asprigna bellicosità di altri («Svegliatevi nel core» e «L’angue offeso mai riposa» di Sesto, «Empio dirò tu sei» ed «Al lampo dell’armi» del generale romano, «Dal fulgor di questa spada» di Achilla), tra il canto virtuosisticamente vocalizzato e le volute di frasi dalla malinconica ed amplissima arcata. Scritto nel 1724 per il King’s Theatre di Londra, si colloca grosso modo a metà della produzione operistica del Caro Sassone, diciassettesima su un totale di quarantadue composizioni melodrammatiche. La première poté contare su vere e proprie icone canore dell’epoca, ossia il castrato contraltista Senesino e la primadonna parmigiana Francesca Cuzzoni, per il musicista tedesco creatori anche, tra l’altro, l’uno dei ruoli di Orlando nell’opera omonima e di Bertarido in Rodelinda; l’altra delle parti di Emilia in Flavio, di Asteria in Tamerlano, della protagonista eponima in Rodelinda, di Laodice in Siroe, re di Persia.
Marie-Nicole Lemieux quale Giulio Cesare si profila, quindi, un’ottima scelta dal punto di vista teorico, la cui bontà viene confermata appieno da quella che è poi l’effettiva resa della cantante canadese in sede d’incisione. La voce, brunita al punto giusto, affronta una tessitura, contraltile per l’appunto, che pare esserle particolarmente congeniale, soprattutto allorquando ci sovvengono le difficoltà che ebbe nelle discese al grave il pur valente Lawrence Zazzo nella produzione di Giulio Cesare allestita dall’Opéra National di Parigi nel 2011 e da cui Virgin Classics ha tratto un dvd. Vero e proprio banco di prova è l’aria di furore del second’atto «Al lampo dell’armi», dove le frequenti puntate al registro inferiore e le vorticose colorature sono risolte con estrema dovizia tecnica conservando pregnanza testuale.
Per Cleopatra avremmo forse preferito una vocalità più chiara e di rotondità italiana, ma bisogna tuttavia ammettere, e con piacere, che Karina Gauvin è ineffabile. Intendiamoci: il soprano, anch’esso canadese, possiede un mezzo già insolitamente pieno e succoso per essere una specialista del Barocco, forse però poco morbido e di sicuro meno ricco di sfumature opalescenti rispetto a quelle in cui si seppe produrre Natalie Dessay nel sopra citato allestimento parigino. Il risultato è il seguente: tutto è cantato alla perfezione, ma manca un poco di trasporto nei momenti di lirico abbandono. Esaltante, per contro, la resa degli ornamenti: mi riferisco, in particolar modo, ai meravigliosi trilli di «Tutto può donna vezzosa», di un nitore e di una sonorità abbaglianti, ed alle variazioni della celebre «Da tempeste il legno infranto».
Romina Basso è una Cornelia convincente, mesta e risoluta al contempo, anche se pure in questo caso ancora fresco è il ricordo di meravigliose prove precedenti: da un lato quella di Sara Mingardo al Comunale di Bologna nel 2003, dall’altra quella della talentuosa Varduhi Abrahamyan nell’ormai ben nota al lettore produzione della Ville Lumière. Loro seppero trasmettere con maggior fervore il cordoglio sublimato in aristocratico contegno che fa della sventurata moglie di Pompeo donna romana di suprema dignitas sulla scia della mitica Lucrezia.
Interessante l’idea d’affidare la parte di Sesto (cui, chissà perché – forse solo in virtù del nome – sono assegnate alcune delle arie più belle; faccio riferimento, ovviamente, anche al personaggio omonimo della Clemenza mozartiana) ad una schietta voce sopranile, Emőke Baráth: vengono messi ancor più in risalto la verde età del figlio di Cornelia e l’impeto, tutto teneramente adolescenziale, dei suoi propositi di vendetta. Un taglio nuovo e rivelatore, dunque, che però viene in parte guastato dalla scelta agogica che Curtis effettua per alcuni brani in cui il soprano ungherese si produce: quelli di furore, che se condotti per mezzo di ritmi più solleciti sono veri e propri cammei d’ebbra esaltazione, sono qui piuttosto impietosamente blanditi. Filippo Mineccia è un Tolomeo efficace nel rendere l’essenza del re d’Egitto, fanciullo viziato nelle proprie esternazioni capricciose e smanie incontrollate di potere. Vocalmente preparato, si segnala solo una certa disomogeneità nel passaggio di registro che mi pare posa essere facilmente risolta. Achilla è un ottimo Johannes Weisser, che in quest’occasione recupera una dimensione a lui più congeniale, dopo essere stato catapultato forse troppo precocemente nella titanica impresa di rivestire i panni del Don Giovanni discografico di René Jacobs per Harmonia Mundi. Di buon livello il Nireno di Milena Storti ed il Curio di Gianluca Buratto.
A parte il disappunto già espresso nei confronti della decisione presa rispetto ad alcune arie di Sesto, Alan Curtis si conferma una solida certezza nel panorama della Baroque Renaissance; una meticolosa concertazione ed una somma passione profusa nella ricerca documentaristica che precede ogni incisione in studio si segnalano come suoi principali punti di forza. Come si può leggere nel libretto accluso, egli stesso afferma di aver scritto di proprio pugno le cadenze, dove ritenuto appropriato, così come le ornamentazioni dei da capo, facendo in modo però che esse si mescolassero anche a quelle ideate personalmente dei cantanti. Rigore e libertà, dunque. Buon ascolto.
HÄNDEL Giulio Cesare (opera in tre atti di Nicola Francesco Haym) | Marie-Nicole Lemieux, Karina Gauvin, Romina Basso, Emőke Baráth, Filippo Mineccia, Johannes Weisser, Milena Storti, Gianluca Buratto| Il complesso barocco, direttore Alan Curtis | NAÏVE OP 30536
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