di Redazione

Per intero raveliano il cd realizzato dall’Orchestra e Coro dell’Opéra di Parigi, per la direzione di Philippe Jordan. E si tratta di Daphnis et Chloé (1912) e dell’inossidabile capolavoro orchestrale La Valse (1919-20). Pagina di innegabile bellezza soprattutto timbrica, il balletto Daphnis et Chloé dall’esile trama, ispirato al romanzo ellenistico di Longo Sofista, nonché contrassegnato da una lussureggiante orchestrazione, nella lettura di Jordan conquista fin dall’esordio, soffuso e rarefatto, e subito ecco la magia di un immane crescendo equilibratissimo ed elegante e già pare un anticipo de La Valse. Ammirevole la souplesse con la quale compagine orchestrale e coro affrontano la seducente partitura raveliana, le sue immagini arcaicizzanti, i richiami naturalistici come filtrati attraverso una sensibilità sopraffina.

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Di gran pregio le molte emersioni delle prime parti (flauto, oboe, corno inglese, fagotto, legni in primis, ma anche ottoni di luminosa e sempre controllata possanza, le liquidità dell’arpa per le zone più quintessenziate); e ancora  il colore pastoso degli archi e l’apporto determinante delle percussioni. Il coro, poi, con i suoi seducenti vocalizzi, aggiunge pigmento con una elasticità ed una flessuosità davvero apprezzabili.

Molto bene poi la precisione ritmica con la quale Jordan affronta i passi ‘danzati’, sicché per contrasto emergono in tutta la loro icastica bellezza, contrapposti alle zone più sfumate giocate sul flou, per l’appunto. Jordan riesce a delineare in tutta la sua grottesca goffaggine il bovaro Dorcon, il suo impacciato incedere con grandi pennellate e nel contempo lavorando finemente di cesello. Una interpretazione che non perde mai di vista la visione d’insieme, pur rivelandosi iper analitica quanto a elementi timbrici, insomma quello che occorre per Ravel: l’analisi puntuale e lo sguardo totalizzante alla partitura. Quante deliziose immagini balzano evidenti all’ascolto sicché il capolavoro ne pare come rigenerato. E perfino una certa sua (obiettiva) prolissità, talora ravvisata da alcuni studiosi, risulta qui del tutto assente. Dalle delicate trame volte a delineare la fresca e giovanile bellezza di Chloé, giù giù sino all’epilogo, dopo la burrascosa vicenda del rapimento da parte dei pirati, un quadro di variopinta ricchezza coloristica non immemore di certo Borodin dalle screziature orientaleggianti, con quelle sue parti modaleggianti come nelle danze guerriere del Principe Igor.

Dallo scoramento dell’innamorato Daphnis a una miriade di altri panorami psicologici meravigliosamente riverberati dalla partitura: ora argentino tintinnare di triangolo, ora cameristiche squisitezze, ora misteriosi appelli di ottoni, ora remote arcane sonorità di archi, ora turgide ondate sonore ibridate dalla macchina del vento. Un plauso speciale per il delicato intervento del coro a cappella alla conclusione del primo quadro, per limitarsi ad un esempio, ma si potrebbe proseguire a lungo (per dire da ascoltare con cura il risvegliarsi della natura all’alba, con quella freschezza che pare ricollegarsi alla debussiana Mer). Davvero irresistibile poi il conclusivo Baccanale che suggella il balletto in un clima di orgiastica ebbrezza e di esattezza ritmica che ha del prodigioso.

Quella stessa esattezza ritmica che si ritrova poi nella Valse, alla quale Jordan conferisce un singolare appeal, fin dall’impercettibile esordio, potendo contare su un’orchestra di primissimo livello: sicché quel senso di ineluttabile abbattersi del destino emerge al meglio in questa partitura smagliante dalla vibrante drammaticità. Il segreto sta nel mantenere sempre costante la tensione, tra momenti seducenti, nei quali il valzer pare decollare a poco a poco con ottimismo, e nel riuscire a ricomporne le varie schegge, come in un caleidoscopio, con quel collassare inesorabile di certi altri passi,  quel collidere, quegli schianti della partitura, quel suo inabissarsi in un vortice fin nevrotico che è la mimesi della tragedia del nuovo secolo (l’immane cataclisma del Primo Conflitto mondiale che nella Valse ha il suo ferale corrispettivo, come l’epicedio di un’epoca irrimediabilmente trascinata via dalla Guerra stessa). Jordan riesce così a conseguire un vasto spettro di sfumature espressive, dal languoroso al brillante, dal vorticoso all’euforico. Nessuna fumisteria, niente alonature, men che meno nessun compiaciuto manierismo, tutto in primo piano comme il faut. A dir poco irresistibile.

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Pubblicato il 2015-04-13 Scritto da AttilioPiovano

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