di Luca Chierici

UNO DEI MOTIVI DI VANTO del Festival della Valle d’Itria, è risaputo, è stato quello di recuperare alle scene opere che per vari motivi avevano conosciuto una discontinuità di successo (e spesso l’oblìo) una volta che le condizioni al contorno che ne avevano decretato la fama andavano scomparendo. Il recupero dei virtuosismi settecenteschi e poi del belcanto vero e proprio da parte di chi oggi poteva essere in grado di evocare l’indimostrabile bravura dei grandi nomi del passato, dai virtuosi castrati ai veri mattatori della stagione del primo ottocento, è oramai prassi consolidata – non lo era agli inizi dell’attività del Festival – e per quanto la mole di partiture manoscritte o addirittura autografe raccolte nelle biblioteche italiane continui ad essere sproporzionata rispetto all’entità delle loro rappresentazioni moderne, i lineamenti di una storia del melodramma resa viva dall’ascolto effettivo si stanno lentamente precisando attraverso scelte di repertorio sempre più attente.

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Il bavarese Johann Simon Mayr, divenuto poi Giovanni Simone durante la sua splendida e definitiva carriera italiana, vive tra il 1763 e il 1845 un periodo lunghissimo durante il quale grandi musicisti fanno a tempo a esercitare la propria decisiva influenza nel campo della transizione tra l’opera seria settecentesca e gli albori del romanticismo. Se teniamo conto dell’anno di composizione della Medea in Corinto (1813), su libretto di Felice Romani, è utile ricordare che fino a quel momento e durante l’esistenza di Mayr, vedono la luce l’Idomeneo (1781) e La clemenza di Tito (1791) di Mozart, tutte le opere serie di Cherubini (tra il Quinto Fabio del 1780 e Les Abencerages del 1813, con l’ovvio riferimento di Medée del 1797), La Vestale di Spontini (1807) e il solo Demetrio e Polibio del giovanissimo Rossini (1812). Tra tutti costoro, la figura che più insistentemente appare dinanzi ai nostri occhi durante l’ascolto della Medea di Mayr è quella di Mozart, e soprattutto il Mozart de La clemenza di Tito con i suoi interventi strumentali che più ricordano i virtuosismi di voci quali quelle del clarinetto e del violino che si ascoltano in Medea. Dal punto di vista del trattamento delle voci nel melodramma tragico fondato su soggetti classici è ovvio che il riferimento a Mozart si faccia molto meno insistente, se non nullo: alla perfetta stilizzazione dell’ultimo Mozart si contrappone qui tutta una tradizione settecentesca italiana che Mayr conosceva benissimo e allo stesso tempo intervengono in quest’opera i fermenti pre-romantici, il fuoco di passioni che sono propri della Medèe cherubiniana e delle opere nate in quegli anni nel contesto francese.

Ma in questa rigogliosissima partitura di Mayr tutte queste ascendenze si mescolano e vengono in alcuni casi portate alle estreme conseguenze: le parti strumentali assumono un’importanza straordinaria (gli assoli del violino e dell’arpa, e soprattutto il trattamento dei fiati, una vera meraviglia di impasti sonori e di sfruttamento delle timbriche proprie del clarinetto, dell’oboe, del corno a fini espressivi, narrativi) e quelle vocali precedono cronologicamente i virtuosismi rossiniani che si ascoltano a partire dal periodo napoletano.

Prova ne sia anche la presenza di cantanti, alla prima napoletana dell’opera, che avranno un peso consistente nell’immediato futuro. Il debutto della Medea in Corinto al San Carlo nel 1813 avvenne anche grazie a un cast davvero eccezionale, con il ruolo della protagonista affidato alla Colbran e tre tenori del calibro di Nozzari, Donzelli e Manuel Garcìa. L’opera ebbe una diffusione buona ma non straordinaria nei teatri europei ma nel frattempo l’astro rossiniano iniziava la propria formidabile ascesa e già nel 1829, quando la Medea in Corinto fu ripresa al Teatro Carcano di Milano con la presenza di Giuditta Pasta, il panorama musicale aveva non poco mutato i propri contorni. La scomparsa dell’opera, dopo le riprese londinesi degli anni Trenta, è da imputare però non solamente al cambiamento del gusto: già i contemporanei avevano ammirato in essa più la squisita fattura che il valore drammatico e solamente nel 1977 il lavoro di Mayr venne recuperato con il ruolo principale affidato a una Gencer già in dorato declino.

L’allestimento del Festival della valle d’Itria ha visto i suoi punti di forza nella presenza di almeno tre cantanti di alto livello. Michael Spyres ha affrontato il massacrante ruolo di Giasone con bravura eccezionale, dimostrando di mantenere una qualità di timbro e di emissione ottimali all’interno di uno spettro sonoro di estensione fuori dall’ordinario anche per quei tempi e allo stesso modo rendendo palese lo spessore di un ruolo drammaturgicamente complesso. Anche Enea Scala si è adoperato con ottimi risultati per dare vita a un ruolo che in realtà è più ammirevole sotto l’aspetto puramente belcantistico. Di minor fascino timbrico, ma di grande temperamento scenico è apparsa Davinia Rodriguez nel ruolo del titolo, anch’esso richiedente un impegno fuori dal comune soprattutto nella grande scena e aria dell’atto I e in tutto l’atto II.

Accanto a questi fuoriclasse si è distinta soprattutto Mihaela Marcu come Creusa. Meno appariscente l’ intervento di Roberto Lorenzi (Creonte) e lodevole pur nei limiti del ruolo è stata l’Ismene di Nozomi Kato. L’Orchestra Intternazionale d’Italia e il Coro della Filarmonica di Cluj-Napoca è stata guidata con grande professionalità e sensibilità da Fabio Luisi, un direttore il cui acume musicale permette di addentrarsi con sicurezza e grande gusto in terreni specialistici poco frequentati. L’allestimento scenico è apparso piuttosto povero e gli interventi del regista Benedetto Sicca funzionali ai movimenti che impongono la presenza di così tanti personaggi e del coro. A questo titolo va detto che l’utilizzo dei danzatori della Fattoria Vittadini in quantità eccessiva (quasi indispensabili i due che con grande bravura hanno dato vita ai figli di Medea e Giasone, Chiara Ameglio e Cesare Benedetti) non giovavano alla rappresentazione, quasi si temesse un certo horror vacui o la noia del pubblico nei lunghi recitativi e nelle stesse arie che hanno portato lo spettacolo a un livello di durata temporale consistente. Di grande impatto scenico è stata peraltro la realizzazione del finale che trasforma la Medea in volo con un carro trainato da due draghi nell’apparizione di uno stormo di colombe che ha attraversato il cortile del Palazzo Ducale e si è perso nella notte di Martina Franca.

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Luca Chierici

Luca Chierici

Luca Chierici, nato a Milano nel 1954, dopo la maturità classica e gli studi di pianoforte e teoria si è laureato in Fisica. Critico musicale per Radio Popolare dalla fine degli anni '70 e per Il Corriere Musicale dal 2012, collabora alle riviste Musica e Classic Voice dalla fondazione. È autore di numerosi articoli di critica discografica e musicale, di storia della musica e musicologia, programmi di sala e note di lp e cd per importanti istituzioni teatrali e concertistiche e case discografiche. Ha collaborato per molti anni alle riviste Amadeus, Piano Time, Opera, Sipario. Ha condotto Il terzo anello per Radiotre e ha implementato il data base musicale per Radio Classica. Ha pubblicato per Skira i volumi dedicati a Beethoven, Chopin e Ravel nella collana di Storia della Musica. Ha curato numerose voci per la Guida alla musica sinfonica edita da Zecchini e ha tenuto diversi cicli di lezioni di Storia della musica presso i licei milanesi. Nell'anno accademico 2016-2017 ha tenuto un ciclo di seminari di storia dell'interpretazione pianistica presso il Conservatorio di Novara (ciclo che è stato replicato per l'anno 2017-2018 al Conservatorio di Piacenza). Appassionato di tecnologia, ha formato nel corso degli anni una biblioteca digitale di oltre 140.000 spartiti e una collezione di oltre 70.000 registrazioni live. Nel 2007-2008 ha contribuito in qualità di consulente al progetto di digitalizzazione degli spartiti della Biblioteca del Conservatorio di Milano. Dal 2006 collabora alla popolazione del database della Petrucci Library (www.imslp.org).Dal 2014 è membro della Associazione nazionale Critici musicali.

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