Prima rappresentazione assoluta dell’opera “Leggenda” di Alessandro Solbiati tratta da La leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij in scena il 20, 24, 27 settembre 2011 al Teatro Carignano di Torino nell’ambito della stagione lirica del Teatro Regio e in collaborazione con il Festival MITO Settembre Musica.
leggi il libretto dell’opera | leggi lo scritto di Alessandro Solbiati “A proposito di Leggenda”
Un’opera di densa spiritualità per riflettere sull’umanità e la società di oggi a partire da un romanzo del secondo Ottocento che si rivela, come spesso accade, molto attuale.
Dopo Il carro e i canti, la seconda opera di Alessandro Solbiati (che ne firma musica e libretto) è ancora una volta ispirata a un autore russo e precisamente al capitolo La leggenda del Grande Inquisitore da I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij. Commissionata dal Teatro Regio di Torino, l’opera andrà in scena il 20 settembre 2011 (con replica il 24 e il 27) presso il Teatro Carignano, in collaborazione con il Festival MITO Settembre Musica. L’opera è pubblicata dalle Edizioni Suvini Zerboni – SugarMusic S.p.A., Milano. Il libretto è dedicato a Roberto Bosio, direttore dell’Area artistica del Teatro Regio scomparso nel 2009, mentre l’opera al padre del compositore.
Sotto la direzione di Gianandrea Noseda si esibiranno l’Orchestra, l’Ensemble vocale e il Coro del Teatro Regio di Torino diretto da Claudio Fenoglio. La regia, i costumi e le luci saranno curati da Stefano Poda. Sul palco saliranno invece il tenore Mark Milhofer (Ivan), il soprano Alda Caiello (Alëša), il baritono Urban Malmberg (Il Grande Inquisitore), il soprano Laura Catrani (La Madre) e il basso Gianluca Buratto (Spirito del Non Essere). Due attori impersoneranno il silenzioso Cristo, nel carcere e nel deserto.
Tre livelli si susseguono ed intrecciano nell’opera, tre livelli temporali (incarnati in tre successive coppie di personaggi) che divengono anche spaziali, disegnando via via la profondità di campo della scena: il tempo presente di Ivan e Alëša sul proscenio, la Siviglia cinquecentesca, piazza e carcere, dell’Inquisitore e del “presunto Cristo” al centro del palco, il deserto delle tentazioni evangeliche dello Spirito del Non Essere e di Cristo sul fondo. Il simbolico e misterioso ritorno di Gesù sulla terra evidenzia troppo la differenza stridente tra il suo modello spirituale e quello cinicamente assunto, nel Suo nome, dal potere, per non renderlo corpo estraneo da eliminare nuovamente. All’arresto, alla lunga requisitoria dell’Inquisitore e alla nuova condanna a morte Egli oppone solo un silenzioso abbraccio che riafferma il valore supremo dell’Amore. Ed il Suo allontanarsi nelle vie notturne di Siviglia lascia aperte molte interpretazioni.
L’Inquisitore è l’incarnazione esatta del potere nella sua forma più inquietante e purtroppo più contemporanea.
Non cioè il potere vistoso ed esplicito, quello delle dittature di ogni epoca che hanno spesso l’indesiderato effetto collaterale di suscitare una profonda coscienza di rivolta, bensì il potere che più sottilmente irretisce le coscienze e tocca il suo capolavoro nel far credere che l’appiattimento del pensiero sia il bene dell’uomo (“noi li convinceremo che son solo poveri bimbi, e che la felicità infantile è la più dolce” dice l’Inquisitore nel suo monologo). Da tale potere è molto più difficile liberarsi perché confonde la nozione stessa di libertà, annullando ogni consapevolezza: come non pensare al sottile potere mediatico in cui siamo costantemente immersi, così abile nell’anestetizzare ogni profonda tensione?
L’orchestra è divisa in due gruppi, Orchestra A in buca e Orchestra B in platea, volti a spazializzare il suono in parallelo con i vari piani narrativi: Ivan e Alëša (Orchestra A), la Siviglia cinquecentesca (cui contribuiscono timbricamente, in scena, chitarra e fisarmonica) e il deserto (Orchestra A + B), il carcere (piccolo gruppo da camera in buca). In due palchi di proscenio contrapposti si trovano le percussioni, in un altro la celesta. Da un punto di vista vocale il coro nel deserto riverbera la voce dello Spirito del Non Essere e nel carcere l’Inquisitore è reso polifonico da un sestetto vocale.
Argomento e Sinossi
Prologo – Ivan e Alëša sono già sul proscenio a sipario aperto. Dietro ai due fratelli, su una simbolica figura di bimbo si addensano delle minacce che costituiscono il corrispettivo del “prologo” dostoevskijano, in cui Ivan rovescia su Alëša alcuni terribili esempi di violenza su bambini tratti dalla vera cronaca nera.
Scena I – La prima scena è il dialogo tra i fratelli sul proscenio, il I livello scenico, strumentalmente avvolto dalla sola Orchestra A, in buca. L’assunto della perorazione di Ivan è «se Dio esiste, perché un così terribile male nel mondo?». Alëša sa solo balbettare debolmente qualcosa sulla libertà dell’uomo. Allora Ivan narra il suo poema, la sua leggenda.
Scena II – La leggenda, ovvero il II livello scenico (al centro del palco, alle spalle dei fratelli), temporale (Siviglia nel XVI secolo anziché la Russia di fine Ottocento) e narrativo. All’allargarsi dello spazio scenico corrisponde analogo allargamento dello “spazio sonoro”: all’orchestra A si somma l’Orchestra B, che nel piccolo Teatro Carignano sarà disposta in platea. Il “suono” della folla sevillana è costituito dall’intreccio di mille frammenti di musiche medievale e rinascimentali spagnole. Via via quella folla si polarizza su uno di loro, inspiegabilmente identificato in Cristo ritornato: egli non parlerà mai, ma è in grado di compiere un miracolo e la folla è tutta per lui. Ma di fronte alla sua misteriosa autorevolezza si para l’autorità, ovvero l’autoritarismo, del Grande Inquisitore che provoca l’arresto del “presunto Cristo”.
Scena III – Lo spazio si chiude intorno ai due, l’affollato meriggio sevillano si trasforma nel buio del carcere. Analogamente, lo spazio sonoro si riduce a un quintetto d’archi in buca, a due corni e qualche percussione. Le varie fasi di questa scena s’intitolano Responsori poiché è la musica a rispondere per il muto Cristo immobile. La voce dell’Inquisitore è riverberata da un sestetto vocale che corrisponde al coro delle vastità sevillane.
Scena IV – L’Inquisitore cita le tentazioni nel deserto: si apre così il III livello, il terzo spazio scenico e temporale, il deserto dei Vangeli, con la terza coppia di personaggi, lo Spirito del Non Essere e un Cristo ancora silenzioso, le cui risposte sono affidate al coro, “voce del deserto”. È il momento di massima polifonia e massima ampiezza spazio-sonoro-temporale: anche Alëša e Ivan interloquiscono, i tre livelli “dialogano” tra loro e si sommano le due orchestre, i personaggi, il coro e il sestetto vocale. Al culmine delle accuse l’Inquisitore condanna di nuovo Cristo a morte.
Epilogo – L’intuizione assoluta di Dostoevskij: l’unica risposta del Cristo silenzioso è avvicinarsi all’Inquisitore e abbracciarlo: l’amore senza ragione di fronte alla ragione senza amore. L’Inquisitore, paralizzato ma persistente nella sua idea, caccia per sempre Cristo, che si allontana nelle silenziose vie notturne di Sevilla. La musica mette in scena il tempo psicologico: quei pochi passi verso l’abbraccio valgono infatti un’intera risposta. Allo stesso modo il lento allontanarsi nelle vie buie, intercalato da un ultimo intervento di Ivan e Alëša ha il suo corrispettivo musicale nel lento dissolversi del tutto, al passo del viaggiatore: è il vuoto che consegue a quella cacciata. Ma è proprio quel vuoto a lasciar trasparire via via il canto di un violoncello simmetrico all’iniziale oboe solo.
Parola al compositore
“Raggiunti e superati i miei cinquant’anni ho sentito l’esigenza di dire con forza una mia “Weltanschaung”, di mettere in scena il mio punto di vista fortemente critico contro la sempre più forte spinta della società occidentale verso la superficialità, l’esteriorità colorata e stupida, verso l’aggiramento delle domande profonde e vere dell’esistenza, preludio, tutto questo, all’obnubilamento delle coscienze e al loro controllo.
Più di quindici anni fa nel mio più lungo e composito lavoro sinfonico-vocale (X Elegia) ho utilizzato l’ultima delle Duineser Elegien in cui Rilke rappresenta la società attuale (del 1922…) come un grande luna park le cui luci e i cui rumori anestetizzano ogni domanda esistenziale. La prima scelta da me fatta di un testo teatrale, quello di Puskin, vede in scena in un unico luogo chiuso cinque personaggi che rimuovono festeggiando il pericolo incombente di un’epidemia di peste, metafora trasparente di un uomo occidentale che cerca sempre più di neutralizzare, di escludere da sè divertendosi ogni dolorosa coscienza della condizione umana, quella “cosmica” quanto quella terribilmente reale dei miliardi di affamati ed indigenti intorno a noi. In questo senso, con la Leggenda del Grande Inquisitore si tocca una vetta di letteratura e significato difficilmente superabile e piena di differenti implicazioni. Un’unica linea collega dunque le mie tre successive scelte della X Elegia Duinese di Rilke, del Festino in tempo di peste di Puskin e della Leggenda dostoevskijana. Ma a differenza che nelle altre due qui esiste un’invincibile, commovente alternativa, e non è necessario essere credenti per rimanerne emozionati: il silenzioso abbraccio finale del “presunto Cristo incarcerato” all’Inquisitore, cioè a colui che lo ha appena nuovamente condannato a morte in quanto reo di aver innalzato l’uomo alla dignità suprema della libertà, cioè la contrapposizione del valore supremo, invincibile e indiscutibile dell’Amore all’agghiacciante ed amaro cinismo dell’Inquisitore, quell’abbraccio è una risposta definitiva e suggella anche in me il percorso che mi ha condotto in quasi vent’anni da X Elegia a Il carro e i canti e infine a Leggenda.
Courtesy Edizioni Suvini Zerboni