Ancora giovane, ma da tempo definitivamente affermatissimo a livello internazionale, Leonidas Kavakos è tornato ad esibirsi a Torino giovedì 19 con replica venerdì 20 gennaio presso l’Auditorium Toscanini entro la stagione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale Rai
di Attilio Piovano
Musicista di prima grandezza, Kavakos a Torino si è presentato nella doppia veste di violinista di lusso e direttore, dinanzi ad una folta platea; molti, anzi moltissimi i giovani, perlomeno in occasione della replica di venerdì sera, alla quale abbiamo assistito, ed è stata una piacevole e gradevolissima sorpresa che merita rilevare. Chissà che si riesca ad invertire prima o poi il trend negativo che registra un vistoso invecchiamento del pubblico ai concerti di classica ed una endemica mancanza di ricambio, ebbene ieri sera la smentita clamorosa a questo luogo comune, spesso reale. Ed è in questa seconda veste – di direttore, per l’appunto – che gran parte del pubblico e della critica presente desiderava misurarne il valore, già apprezzandolo quale solista (specie nel repertorio tardo romantico e, più ancora, per parte nostra, in quello novecentesco). Kavakos – come sanno i lettori che siano altresì fedeli della consueta diretta radiofonica per Radio3 Suite – ha diretto la «Sinfonia Classica» di Prokof’ev di cui ha ben colto l’arguzia del movimento d’esordio, dirigendo con gesto preciso e sicuro.
Una lettura molto equilibrata, quasi neo-classica, verrebbe da dire, se i lettori ci passano il gioco di parole. Qualche dettaglio qua e là poteva essere più nitido, ma si tratta di piccole cose. Bene il delizioso Larghetto per la delicata cantabilità degli archi e bene la cerimoniosa allure della successiva Gavotta, ma senza affettazioni, eseguita ponendo in evidenza quel suo tono rustico e bonario. Da ultimo la corsa sfrenata, a briglie sciolte del Finale, Prestissimo, vero tour de force per l’intera orchestra che ha sfoderato il giusto suono, leggero, crepitante. Forse un lavoro ancora più attento e approfondito in sede di concertazione avrebbe innalzato ulteriormente il livello, ma si sa che i tempi di produzione sono serrati, ed in programma del resto c’erano anche altre pagine e di grande impegno, sia per il direttore, sia per la compagine: segnatamente i sublimi «Quadri da una esposizione» musorgskijani, naturalmente nella superba orchestrazione del genio Ravel: pagina sempre graditissima e di sicuro effetto con la quale l’OSN Rai ha peraltro una lunga consuetudine (l’ultima volta li aveva diretti De Burgos nel 2006). «Quadri» inizialmente apparsi un poco a corrente alternata, ma poi in chiusura il trionfo ed i lunghi, convinti applausi del pubblico (come ha potuto constatare chi ha seguito la diretta radiofonica).
Ma andiamo con ordine e tentiamo di esaminare allora la lettura di Kavakos e alcuni particolari degni di sottolineatura. L’esordio, con la celebre fanfara, ovvero la prima formulazione della Promenade. Kavakos l’affronta con molta (fin troppa) cautela, sia agogica sia dinamica, sorprendendo non poco per uno stacco del tempo eccessivamente cauto e colori non particolarmente sgargianti (ma di scelta precisa si tratta, come abbiamo poi compreso nel prosieguo della sua lettura). Nessuna concessione all’effettismo o al bozzettismo descrittivistico in Gnomus, apparso più simbolista che onomatopeico: lettura aspra, pur condivisibile, anche se rischiosa (altri giocano assai più e con spregiudicatezza sul contrasto tra le sezioni fulminanti, Vivo, ed i passi improntati a pesantezza). Avremmo obiettivamente desiderato più scarti dinamici tra il fortissimo di certe battute (per il lettore che desidera riscontrare in partitura la contrapposizione è netta e facilmente individuabile) e quelle frasi livide degli archi. Poi la seconda formulazione della Promenade parsa cantabile sì, ma scabra, laddove altri cercano un suono bello, leggiadro. Anche in questo caso ci è parso di capire che si trattasse di scelta consapevole. E allora: quanta cappa di nera tetraggine in quel capolavoro di intuito psicologico che è Il vecchio castello (un plauso speciale a Mario Giovannelli, sax contralto: lo strumento prodigiosamente scovato da Ravel per questa melopea di tristezza indicibile e di sconforto assoluto). Kavakos ha ancora indugiato (forse un filino troppo) nelle Tuileries, cesellando le delizie cameristiche di cui è contesta la pagina, ma senza conferire ironia ad esempio al sospiroso passo degli archi (battuta 35, per i lettori scrupolosi e un po’m aniacali), passo fintamente sognante, ma in realtà scherzoso. E quel tono da filastrocca popolare del tema iniziale con l’intervallo di terza in bella vista (come le conte popolari dei bambini di tutto il mondo, tipo: «passa paperino/con la pipa in bocca/ forza a chi sta sotto») è scivolato via senza imprimersi più di tanto. Poi il colpo d’ala, e da lì è stato tutto un crescendo di emozioni, prima in parte come frenate, come sospese, trattenute a forza. È come se Kavakos – in termini motoristici – prima avesse guidato con precisione, ma anche con prudente e guardinga pulizia, lasciandosi infine andare ad una guida invece più rotonda, più sciolta anche se mai spericolata.
E allora, dopo la pesantezza giustamente indicibile di Bydlo (un bravò a Daryl Smith, tuba di lusso dal suono corposo e pur elegante), dopo il Balletto dei Pulcini affrontato con levigatezza ed il dialogo impossibile tra i due ebrei (vero capolavoro psicologico volto a rendere il senso dell’incomunicabilità, con la desolata frase dagli archi e la tronfia sicumera del ricco che, ahi noi, vince e afferma se stesso, umiliando il povero questuante, ben reso dalla tromba con sordina di Roberto Rossi) ecco il prodigio di Limoges: e qui Kavakos ha scalato marcia, ha impresso un vero e proprio kick down alla partitura, raramente apparsa così cristallina e nitida. Grandi emozioni anche in Catacombae, pur senza quegli immani (e facili) crescendo che altri pongono in atto, e più ancora nei diafani incorporei tremoli degli archi nel pendant di Cum mortuis in lingua mortua. Quindi le efferate brutalità di Baba Yaga, dai sonori rintocchi delle percussioni, ma anche dalla parte centrale in cui la strega pare rimestare nel pentolone e da ultimo le policrome atmosfere della Grande porta di Kiev. Sonorità smaglianti, ma mai smargiasse, tra tutti un solo dettaglio: la singolare enfasi conferita al respiro (quasi un punto coronato) che precede quel tema da corale, da canto ortodosso che per due volte si affaccia, prima dello scampanio ebbro e festoso della chiusura: da solo varrebbe un 10 e lode. Ottime (e festeggiate alquanto) tutte le prime parti dell’orchestra e molto bene l’insieme, entro una lettura che, come certi romanzi, ci ha conquistato a poco a poco, conducendoci per mano da certe iniziali (e legittime) perplessità alle emozioni e al consenso pieno dell’epilogo. E dire che abbiamo tutti tanti e tali riferimenti di confronto per i «Quadri», dalle molte edizioni in cd alle varie esecuzioni dal vivo. Kavakos in apertura di serata aveva eseguito il mozartiano «Concerto K 218» (dei cinque per violino del salisburghese, forse il più anodino, insomma il meno accattivante).
In tutta onestà Kavakos ci è piaciuto sì, ma non ha rivelato quel magnetismo che invece emana nelle pagine del ’900. Mozart è insidioso, si sa, e non tutto era perfettamente a posto nel primo tempo (un solista/direttore del resto materialmente non riesce ad infondere quella sicurezza negli attacchi e nelle dinamiche di esecuzioni dove invece i ruoli sono sdoppiati). Bene il cantabile del tempo lento, anche se un po’ monocromo, ma molto pathos e ricercata eleganza nella cadenza. Da ultimo lo spiritoso Rondò: in complesso un’esecuzione sobria, a posto quanto ad appropriatezza stilistica, certo ben più che solamente corretta, ma senza innescare quelle emozioni, quel trascinante entusiasmo che altre volte Kavakos ha immediatamente posto in atto, specie in pagine novecentesche che invece – piace ripeterlo – sono il suo forte.
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… di cuore, ringrazio il simpatico e cortese lettore Roberto Mastrosimone che mi permette di rettificare due dati: il primo, ha effettivamente ragione, quanto alla parte solistica in Bydlo, come si fa spesso, non era il basso tuba a realizzarla, bensì l’euphonum, dunque ‘ diamo a Cesare quel che è di Cesare’ ecc. ecc., per farla breve, suonava effettivamente l’ottimo Antonello Mazzucco anziché il non meno valido Daryl Smith (pur presente in organico). Chiedo scusa a tutti per la svista (a Mazzucco, a Smith ed al lettore), ero tutto preso dalla partitura, un po’ indietro in sala, le mezze luci e poi… la miopia e la vecchiaia che avanzano… Altra doverosa precisazione (anche qui, scambio di due righe vicinissime sul pr. di sala); ultima esecuzione dei Quadri a To, sì nel 2006 (10 novembre) ma dirigeva Dmitrij Kitaenko e non e Burgos (che aveva diretto invece sempre nel 2006, 26 maggio, la ‘Classica’ di Prokof’ev. Per strafare aggiungo allora che Tate aveva invece diretto l’ultima volta e sempre nel 2006, 5 maggio, il Concerto K 218, solista la fuoriclasse Julia Fischer. E questo è quanto. W la (grande) e bella musica: e per fortuna che ci sono ancora ascoltatori appassionati (ed attenti).
Ho assistito al concerto di giovedì e concordo con quanto Lei scrive. Forse giovedì è “andata in po’ meglio” (dal vivo capita), nel senso che le smagliature che Lei rileva non le ho notate. In Bydlo giovedì anziché Daryl Smith alla tuba, sonava l’euphonium Antonello Mazzucco.