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PERLE DI VETRO
di Giovanni Albini
V acanze finite, si ritorna sui banchi della musica contemporanea: dal 6 al 15 settembre con l’Ultima Oslo Contemporary Music Festival, interessantissima vetrina nordeuropea della musica d’oggi; dal 12 al 29 settembre con la nuova edizione dell’altoatesino Transart, e infine con la Biennale, il 56° Festival Internazionale di Musica Contemporanea, a Venezia dal 6 al 13 ottobre. Per non dire delle molte incursioni di nuova musica nei programmi di MiTo Settembre Musica, a Milano e Torino dal 5 al 23 settembre, e dell’ultimo appuntamento della rassegna Contemporanea, al castello di Arco, il 7 settembre, dedicato all’islandese Olafur Arnalds. Tutti eventi per rituffarsi nelle pieghe della musica d’oggi e riflettere, ancora una volta, sulla contemporaneità.
Sì, ma delle tante possibili, quale contemporaneità? Segue la proposta di un piccolo (non esaustivo) catalogo divertissement di risposte per provare ad orientarsi, spero con un sorriso, nelle molteplici espressioni artistiche del presente.
Innanzitutto mi sembra necessario riconoscere 1) una contemporaneità cronologica: è contemporaneo tutto ciò che appartiene al presente (anno più, anno meno). E allora un festival di musica contemporanea, se dovesse aderire a questo grossolano disegno del presente artistico, non sarebbe altro che un enciclopedico serbatoio di espressioni, personalità, idee, generi, linguaggi ed esperienze senza limiti, se non quelli imposti dal loro tempo anagrafico. E la questione, in un’apodittica evidenza, si chiuderebbe lì. Sogno e incubo di ogni direttore artistico, costretto alla responsabile libertà di una scelta di monumentale eterogeneità.
Ci sarebbe poi 2) una contemporaneità stilistica, velata evoluzione concettuale della contemporaneità storica: e dunque è tutto un problema di cronologia e di novità di linguaggio. Mi piace però pensare che la musica contemporanea non sia un genere, e che ridurre la contemporaneità musicale ad un contenitore di tratti stilistici e di riferimenti estetici, idiomatici e tecnici la renda di una sminuente afferrabilità. Insomma: tanta scienza e poca arte. E in questo imbroglio, purtroppo, è più facile cascare, sia che la si prenda come definizione triviale e tranchant – un principio assoluto di escatologia estetica a salvezza della coscienza intellettuale – sia che la si accetti come facile e seducente soluzione di un problema di scelte poetiche.
Senza allontanarsi troppo dalla contemporaneità stilistica ci si imbatte in 3) una paradossale contemporaneità visionaria. Il presente di chi insegue un’eterna innovazione, di responsabili vati illuminati. Oracoli benedetti, scommettitori estetici. “L’avanguardia”. Ma, a dire il vero, niente mi sembra invecchiare più precocemente dell’immagine che abbiamo del futuro. E poi, ammettendo pure di azzeccarlo in qualche modo questo futuro, alimentandolo peraltro in un contesto di palese auto-predittività, si finisce immediatamente ad arrendersi ad un domani che è già ieri.
Segue una più cautelare 4) contemporaneità artistica: è l’intenzione puramente artistica di autori che vivono nel nostro tempo ad interessare. Una soluzione certo non priva di contraddizioni, ma dopotutto accettabile nel suo essere democratica e politicamente corretta. Spesso si esprime nella sua diffusissima e più discutibile variante della contemporaneità artistica riconosciuta: è uno specifico gruppo sociale a definire cosa si intende per intenzione artistica o, intrecciandosi con la definizione numero 2), quale sia il linguaggio della contemporaneità. Guarda caso per la musica contemporanea trattasi sempre degli artisti stessi (o di sedicenti tali, ognuno la pensi come vuole), a cui si aggiungono altri “addetti ai lavori”. Tutti riuniti in accademie, lobby e schieramenti, barcamenandosi non di rado tra schermaglie, invidie, ruffianerie ed opportunità. In breve: se la suonano e se la cantano (per la cronaca: io in questo momento sto facendo orgogliosamente la mia parte).
E c’è infine 5) una contemporaneità d’attitudine, che richiede una precisa relazione col presente. Giorgio Agamben affermò che «è davvero contemporaneo chi non coincide col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo.» Per completare il pensiero schivando il relativismo più esasperato e rifacendoci alle specifiche dell’artistico, ci viene incontro la penna agile di Jeanne Hersch, che scrisse che «nell’arte non si tratta di raggiungere e comprendere l’artista, ma l’opera stessa e, nell’opera, il miracolo di una forma conquistata a partire da ciò che, nella condizione umana, rifiuta ogni soluzione oggettiva». La contemporaneità come oggettivo risultato artistico frutto di caparbia e inattuale necessità espressiva. Questa soluzione a me convince più di tutte. Un triplo carpiato rovesciato dialettico, la quadratura del cerchio è completa, e si salvano capra e cavoli.
Ma d’altronde è di definizioni, di immateriali contenitori di idee che stiamo parlando. E parafrasando Cage che disse «You don’t have to call it music if the term offends you» verrebbe da dire (e da dirmi): “non la devi chiamare contemporanea se non ti va. E nemmeno musica”. Intanto ascolta. Ai posteri l’ardua sentenza.
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