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La prestigiosa orchestra al Lingotto di Torino per l’integrale delle sinfonie di Brahms. Trionfo e ovazioni a non finire. Bis wagneriano. Sul podio Daniele Gatti
di Attilio Piovano
V ienna: fine anni ’70, primi anni ’80 dell’800. Fervono i contrasti tra i sostenitori della musica assoluta, insomma i brahmsiani di chiara fede, da un lato, Hanslick in testa, e i partigiani della fazione opposta, i wagneriani doc, dall’altra. Contrasti alimentati più da gazzettieri e sedicenti saggisti che non dai veri musicisti. Tifoserie opposte, come se si trattasse delle Nazionali di Italia e Germania, o più localmente Roma e Lazio o, a Torino, Juve e Toro. Già, Torino, per l’appunto: nel capoluogo subalpino lunedì 1° ottobre e martedì 2 sono approdati nientemeno che i mitici Wiener Philarmoniker, vera leggenda in veste di blasonata orchestra, per la gioia dei musicofili, hanno interpretato, a distanza sì ravvicinata, l’integrale delle «Quattro Sinfonie» di Brahms (nell’ambito delle celebrazioni per ill 200° del viennese Musikverein del quale Brahms in persona fu direttore musicale). Trionfo e ovazioni a non finire, entro il gremitissimo Auditorium ‘Agnelli’ rivestito in legno di ciliegio progettato da Renzo Piano già la prima sera, e si è trattato di concerto straordinario dell’Associazione Lingotto Musica (molti lettori hanno forse seguito la diretta radiofonica) con un parterre di autorità e vip (dall’AD di Fiat Group, Marchionne, a Lavinia Borromeo e oltre) e altrettanto l’altro ieri sera, serata inaugurale di stagione 2012/2013 per gli abbonati dei concerti del Lingotto. E Wagner? Che c’entra con una full immersion brahmsiana sul versante sinfonico? C’entra eccome.
Poi tutta la tenerezza che occorre e tutta la Sehnsucht nel celeberrimo Poco Allegretto, approdato financo al cinema, impregnato di melanconia, davvero emblematico del sentire brahmsiano, rude uomo del Nord, avvezzo ai venti dell’isola di Rügen, ma profondamente innamorato della cordialità dei viennesi e del mite clima del Sud
Già, perché a questo punto tanto vale scoprire le carte e partire dal fondo, ovvero dal bis, riproposto da Daniele Gatti, in gran forma sul podio, certo intenzionalmente in entrambe le sere: e s’è trattato del «Preludio Atto terzo» dai «Maestri Cantori». Scelta davvero azzeccata, quella dei Wiener e dell’illustre bacchetta (dirige per intero a memoria con una concentrazione straordinaria ed una comunicativa non meno eccellente): una vera lezione di stile, una lezione di estetica musicale, come a dire, bando alle polemiche di oltre un secolo fa e W la musica, la grande musica, quando ormai sono cadute le barriere (a dire il vero un po’ forzate e capziose) tra opposte partigianerie. Un bel modo, poi, per anticipare le celebrazioni wagneriane dell’ormai imminente stagione, che a Torino, per dire, vedrà il nume tutelare di Bayreuth campeggiare già nella serata d’esordio Rai, il prossimo 11 ottobre, con Valcuha in Auditorium ‘Toscanini’ e la sera dopo al Regio con Noseda sicuro nocchiero dell’«Olandese volante».
Un’integrale dei quattro capolavori di Brahms affidata alla compagine che, fondata da Otto Nicolai nel lontano 1842 ebbe proprio il musicista amburghese più volte tra i suoi direttori. Che i Wiener siano una delle orchestre più strepitose del mondo è una di quelle ovvietà che Monsieur Lapalisse avrebbe potuto firmare e controfirmare. Perché lo siano è una faccenda un pochino più articolata da definire: la perfezione tecnica (pressoché) assoluta non si discute, quanto alla bellezza del suono di tutte – beninteso – tutte le sezioni, è altra questione assiomatica. Non basta: pur aborrendo il becero luogo comune secondo il quale le orchestre francesi suonano stupendamente i francesi almeno quanto quelle russe i proprio autori e via dicendo, è però pur vero che Brahms – viennese fin nelle midolla – i Wiener lo hanno nel sangue. E si sente, eccome. E allora già la prima sera quante emozioni in quell’alternanza di empiti sinfonici e accenni ad un passo di danza, leggiadro ed ammaliante in apertura della «Terza Sinfonia». E che belle atmosfere nello struggente secondo tempo coi fiati bene in vista come in una Serenata. Poi tutta la tenerezza che occorre e tutta la Sehnsucht nel celeberrimo Poco Allegretto, approdato financo al cinema, impregnato di melanconia, davvero emblematico del sentire brahmsiano, rude uomo del Nord, avvezzo ai venti dell’isola di Rügen, ma profondamente innamorato della cordialità dei viennesi e del mite clima del Sud: la cui musica sprigiona per lo più questo senso di inimitabile commistione, un mix di virilità e tenerezza appunto. E allora il Finale della «Terza» coi suoi scatti fulminei, dopo l’inizio soft e felpato, ma anche la gioia trattenuta, e la dolce estenuata chiusa: a dir poco sublime.
C erto ascoltare la «Terza» e poi subito dopo la «Prima» (ed è stato un crescendo, un climax emotivo) è una gran bella esperienza. E il gioco dei raffronti si fa serrato. E allora quell’inizio epocale, maestoso, alla quale i Wiener hanno impresso una carica energetica a dir poco straordinaria, grazie ad una concertazione, quella di Gatti, ça va sans dire, precisa e puntuale, attenta a dar rilevanza ai minimi dettagli e, pure, senza mai perdere di vista la visione d’insieme. Bella la trasparenza lirica dei due successivi movimenti (i superbi pizzicati degli archi) e da ultimo la catarsi liberatoria del Finale col bel del corno, altisonante e nitido e il corale religioso degli ottoni, e la pasta ambrata dei violoncelli nel celeberrimo tema memore del beethoveniano An Die Freude.
Della «Seconda Sinfonia» – l’altro ieri, serata ancor più in stato di grazia – è particolarmente piaciuto il colore perfettamente messo a fuoco dai Wiener, il colore delicato e umbratile che occorre. Quanta delicatezza e quanto charme già in apertura, e così pure in quegli accenni ad un valzer carezzevole, specie laddove a prevalere sono le mezze tinte e le sfumature. E quel clima che ricorda le arguzie soavi delle giovanili «Serenate op. 11» e «op. 16» (mai abbastanza poste in rilievo e dire che sono due capolavori) prima dello scatto felino del festoso movimento conclusivo: risultato perfetto quanto a precisione ritmica, quanto ad aplomb. E fa sempre un certo effetto inventariare quel tema un po’ stranito col quale Mahler, citandolo papale papale, ‘aprirà’ poi la sua «Prima Sinfonia» su un lungo pedale. Il clou col monumentum della «Quarta» conclusa dall’austero movimento di Passacaglia o Ciaccona che dir si voglia, gli arcaismi del II tempo, le fanfare del III e gli empiti cavallereschi, da saga nordica, che l’inaugurano: insomma una festa per le orecchie e il cuore. E anche per gli occhi, ad ammirare, dal vivo, a Torino, il mito, la leggenda dinanzi a circa 2000 persone o poco meno (4000 contando entrambe le sere). E che bell’inizio di stagione per Lingotto Musica che proseguirà poi le danze a suon di Mahler Chamber ben due volte, con Harding in ottobre e in maggio con Leif Ove Andsnes, Accademia Bizantina, Kremerata Baltica, Budapest Festival Orchestra e, in aprile, l’iper cinetico ed iper sensibile Gergev col Mariinskij. E scusate se è poco.
Risalire in auto e trovarsi nel sotto passo del Lingotto a fianco a fianco col bus dei Wiener diretto verosimilmente in aeroporto (la seconda sera) ha regalato un pizzico di emozione in più. E rientrati a casa andare a letto subito è stato impossibile: in molti siamo andati a riascoltarci almeno un paio di ‘altri’ Brahms su cd (qualcuno ha perfino rispolverato vetusti lp), così tanto per non perdere l’allenamento. E l’orecchio.
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Brahms e la “Sindrome di Beethoven”
di Enrico Girardi
Ma fu veramente la “sindrome di Beethoven” il motivo che impedì a Brahms di accontentare i numerosi estimatori che lo assillavano con la richiesta di prodursi finalmente nel glorioso genere orchestrale? Difficile dirlo, tuttavia non sembra affatto peregrina la tesi suggerita al riguardo da Christian M. Schmidt: l’avere cioè atteso Brahms così a lungo non tanto per paura di misurarsi col fantasma beethoveniano, quanto soprattutto per il desiderio di assimilare la scrittura per il medium orchestrale, fino a impadronirsi completamente dei suoi segreti. In fondo, a chi osservi il catalogo dell’amburghese precedente al 1876, non sfuggirà che i territori del pianismo, del liederismo, della musica corale e cameristica erano stati esplorati in lungo e in largo, senza tema di confrontarsi con i rispettivi numi tutelari, mentre quello orchestrale comprendeva soltanto due convenzionali Serenate giovanili, il problematico Concerto per pianoforte in re minore e solo un’opera recente, ossia le Variazioni su un tema di Haydn, del 1873.
In numerose lettere Brahms aveva confidato a Clara Schumann di sentire di non possedere completamente il linguaggio sinfonico, poiché c’era sempre qualcosa che gli sfuggiva nel trattare i timbri orchestrali; e che in fondo proprio per questo si era cimentato con le Haydn Variationen, come per saggiare le possibilità dell’orchestra in un’opera che per altri aspetti, e segnatamente per la forma, non gli desse alcun problema, essendogli così congeniale il principio della variazione, a lungo sperimentato in numerose composizioni pianistiche e cameristiche del passato.
Non era la forma sinfonica che Brahms temeva, dunque, ma il trattamento del timbro orchestrale. E non a caso lo studio della fortuna critica di questa stupenda creazione insegna che se mai ad essa furono mossi dei rilievi, questi ultimi non riguardarono il profilo formale – di rara solidità – quanto piuttosto quella certa grevità, del resto tipicamente nordica, degli impasti timbrici, oltre a quella severità d’eloquio che ai detrattori della prima ora parve eccessiva.
Eccessiva o meno, tale severità non è altro che la naturale conseguenza di una scrittura molto elaborata polifonicamente, quale del resto era tipica dello stile del musicista, viennese d’elezione ma formatosi nell’austero rigore del Nord della Germania e dotato di un magistero contrappuntistico che non ha paragoni con quello di nessun altro collega del tempo.
(tratto dal libretto di sala del concerto Šostakovič e Brahms, Stresafestival)
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