[wide]
[/wide]
Opera • Successo soltanto parziale per la riproposta del titolo verdiano nell’allestimento già visto a Milano dal 1994, sul podio oggi un musicista di indubbio talento – il giovane Gustavo Dudamel – che non sembra però avere fatto tesoro delle importanti acquisizioni apportate dalla direzione musicale di quegli anni
di Luca Chierici
A lla Scala è anche tempo di riprese di spettacoli particolarmente riusciti. Lo avevamo visto recentemente nel caso di Bohème ed ora è la volta di un Rigoletto con la regia di Gilbert Deflo, le scene di Ezio Frigerio e i costumi di Franca Squarciapino, un allestimento che ha segnato la presenza del capolavoro verdiano nel teatro milanese a partire dal 1994.
Non dimentichiamo che va dato atto alla direzione musicale di quegli anni l’aver infranto alcuni tabù che gravavano sulla programmazione della Scala da troppo tempo: si era arrivati al punto in cui, nel nome del ricordo di una tradizione gloriosa, non si poteva nemmeno accennare a nuove Traviate e Rigoletti, e ancor prima una riproposta di Anna Bolena era finita nel sangue, aggiungendo scandali a quelli inerenti alla già tormentata vicenda dell’eroina donizettiana. E il “nuovo” Rigoletto Muti-Deflo aveva ribadito che, alla fine del secondo millennio, si potevano tralasciare certe consuetudini che facevano parte più della storia del canto che di quella della musica. E allora via puntature, cadenze non espressamente scritte e altri effetti di bravura, peraltro ingredienti quasi irrinunciabili ai fini del successo di pubblico, soprattutto nelle grandi opere di repertorio. Si richiedeva insomma un passo indietro da parte degli interpreti più legati alla tradizione, e allo stesso tempo il consolidamento di una prassi che dava ottimi risultati: quelle scrupolose prove al pianoforte che dovevano rendere ben saldo il rapporto direttore-cantante allo scopo di raggiungere un risultato artistico condiviso.
Manca in Gagnidze una partecipazione credibile al dramma interiore di Rigoletto, come qui si era soliti ammirare in Bruson e Nucci
La mancanza di molti di questi elementi ha decretato ieri sera un risultato di solo parziale successo per la riproposta di Rigoletto: poche uscite alla ribalta da parte di tutto il cast, qualche contestazione indirizzata al direttore e la rapida calata del sipario, evitando il giudizio da parte del pubblico sui singoli interpreti. È necessario conoscere assai bene una tradizione interpretativa per poterne rinnovare gli aspetti più criticabili. In tal senso, un direttore di indubbio talento come Gustavo Dudamel non è riuscito a prendere in mano la situazione se non attingendo al proprio intuito, e se a volte non ha fallito nel sottolineare la veemenza di certi tratti particolarmente infuocati della partitura verdiana, non ha assicurato una lettura stilisticamente ineccepibile del testo e non è stato in grado di imporre la propria autorità nei confronti dei protagonisti vocali. Un momento per tutti, l’attacco dell’Allegro con brio dell’Introduzione, preso a velocità talmente sostenuta da rendere praticamente incomprensibile l’entrata del tenore, e successivamente il mancato rispetto del cambiamento di metrica (un molto più moderato Allegretto) per la famosissima Ballata «Questa o quella», dove si è notata la prima di una serie di asincronie tra accompagnamento e linea di canto.
Vittorio Grigolo, il Duca di Mantova, ha doti vocali di grande rilievo e indiscutibile physique du rôle, ma tende a imporre troppo la sua presenza (e non si tratta solo di un “si” acuto in più o in meno ne «La donna è mobile») e a non farsi facilmente imbrigliare in un corretto gioco di squadra. Va da sé che nei momenti di maggiore protagonismo il tenore aretino abbia acceso gli entusiasmi del pubblico (molti stranieri in sala) e abbia ricevuto riconoscimenti più che meritati. Il tempo e gli sviluppi futuri di carriera chiariranno quale sia la portata del fenomeno Grigolo, che raccoglie oggi il consenso dei palcoscenici di mezzo mondo.
Grandi aspettative suscitava all’inizio il baritono georgiano George Gagnidze, che a dispetto di una presenza scenica davvero troppo ingombrante e di una postura eretta che solo faticosamente poteva essere correlata al suo personaggio, riportava almeno il ruolo nei binari di una corretta interpretazione dal punto di vista vocale, se si eccettua un piccolo incidente di percorso alla fine dell’atto secondo. Elemento che però non è sufficiente a sostenere il peso del title role, mancando in Gagnidze una partecipazione credibile al dramma interiore di Rigoletto, come qui si era soliti ammirare in Bruson e Nucci. L’interprete più corretta e convincente è stata dunque a nostro parere Elena Mosuc, già ascoltata in passato, che ha ancora esteso le valenze del proprio ruolo attingendo a caratteristiche che trascendono gli schematismi del soprano leggero di oramai sorpassata tradizione. E la sua è soprattutto una Gilda che davvero sembra interpretare i sentimenti più vivi e credibili all’interno del libretto di Piave: l’amore incondizionato nei confronti del Duca, fino al sacrificio della morte, e la presa di coscienza del proprio diritto a vivere questo sentimento anche in opposizione all’autorità e ai consigli del venerato padre.
© Riproduzione riservata