Lapis roulant • Anche in campo musicale le qualità innate sono fondamentali per raggiungere il vertice, così come la motivazione e la chiarezza degli obiettivi; ma è necessaria soprattutto molta applicazione. Lo confermano alcune indagini psicologiche
di Rosario Vigliotti
Quando si parla di successo bisogna obbligatoriamente tener conto della motivazione, della forza interiore che ci spinge a raggiungere l’obiettivo prefissato. Non basta però la sola motivazione a spiegare il successo. C‘è chi impara con più facilità e piacere di altri a svolgere un determinato compito, e bisogna anche considerare le abilità innate e le strategie che si utilizzano per apprendere. Le abilità innate, l’insieme di capacità presenti in noi fin dalla nascita, ci consentono di assimilare concetti complessi; possono essere strutturali o modificabili, portandoci a migliorare progressivamente fino ad un livello massimo, variabile a seconda dello sforzo profuso. Ma le abilità innate, da sole, non bastano a raggiungere il successo. Un apprendista pianista e un maestro di pianoforte saranno inizialmente accomunati dalla motivazione, ma avere successo e diventare esperti sono aspetti diversi di uno stesso concetto. Gli esperti hanno strutture di conoscenza più dettagliate e organizzate; risultano più veloci nella risoluzione di problemi; controllano meglio la propria prestazione e, di conseguenza, ottengono risultati migliori. L’esperto può diventare sempre più esperto fino a raggiungere livelli di conoscenza e d’abilità difficilmente superabili, ma può anche regredire, ottenendo prestazioni peggiori rispetto al livello massimo raggiunto, quando la motivazione iniziale è sostituita dalla demotivazione e dal disimpegno nei confronti di un qualcosa che non offre più i risultati attesi o già sperimentati.
Il successo dipende dagli obiettivi e dalle spinte che ci portano ad impegnarci: varie, distinte e modificabili in base al risultato ottenuto e all’impegno che si è inteso profondere. Sono proprio il livello d’impegno e l’obiettivo a guidarci nel cammino verso il successo, attraverso la motivazione, o bisogno di riuscita, assieme al suo contraltare: la motivazione volta ad evitare il fallimento. A detta degli psicologi, i comportamenti dei singoli individui variano a seconda dei modelli educativi imposti dai genitori, ma anche in funzione di situazioni consce. Spesso si tende infatti ad attribuire il proprio successo/insuccesso a cause specifiche, come il livello d’abilità, lo sforzo, la difficoltà del compito, la fortuna, oltre che alla peculiarità del proprio sistema culturale, quando invece è di fondamentale importanza il tempo che si è scelto di dedicare a quel determinato compito.
A tale riguardo Malcolm Gladwell, giornalista scientifico del New Yorker, argomenta in Fuoriclasse – Storia naturale del successo (Mondadori, 2009): «…più gli psicologi esaminano la carriera delle persone dotate, più sembra che la preparazione giochi un ruolo prevalente rispetto al talento innato» e a supporto di tale affermazione riporta i risultati della sperimentazione condotta nei primi anni Novanta dallo psicologo K. Anders Ericsson e da due suoi colleghi sui violinisti dell’Accademia musicale di Berlino. Con l’ausilio dei professori dell’Accademia stessa, i ricercatori avevano suddiviso in tre gruppi i violinisti della scuola. Nel primo gruppo c’erano gli studenti che avevano possibilità di diventare solisti di fama internazionale; al secondo gruppo appartenevano gli studenti giudicati “semplicemente” bravi; il terzo gruppo era invece composto di allievi con scarse possibilità di suonare a livello professionistico, che intendevano insegnare musica nelle scuole pubbliche. A tutti era stato chiesto per quante ore si erano esercitati nel corso della loro carriera da quando avevano preso in mano per la prima volta il violino. Avevano tutti iniziato a suonare all’età di cinque anni e tutti, fino agli otto anni, si erano esercitati per lo stesso numero di ore: due o tre alla settimana. Differenze sostanziali emergevano verso gli otto anni: il gruppo dei destinati a diventare professionisti si era esercitato per sei ore la settimana all’età di nove anni, per otto ore a dodici, per sedici a quattordici e poi sempre di più, fino a più di trenta ore settimanali a vent’anni. A quest’età gli allievi migliori avevano quindi accumulato diecimila ore di pratica, contro le ottomila degli allievi bravi e le quattromila dei futuri insegnanti di musica.
L’équipe guidata da Ericcson ritrovò lo stesso schema mettendo a confronto il tempo dedicato allo studio dai pianisti dilettanti e professionisti: nell’infanzia i dilettanti non si erano esercitati per più di tre ore, arrivando a totalizzare circa duemila ore di pratica all’età di vent’anni. mentre i professionisti avevano invece aumentato costantemente l’esercizio di anno in anno, e a vent’anni avevano raggiunto la quota di diecimila ore, alla pari dei violinisti. Ericcson dimostrò che l’elemento che distingue un esecutore dall’altro è l’applicazione, e che al cervello occorre tutto questo tempo per assimilare ciò che deve sapere e raggiungere un’effettiva padronanza. Diecimila ore. Può essere sintetizzato in questo numero magico la costante che compare nella regola per raggiungere il successo. Regola che può essere applicata anche a chi è considerato un prodigio. Ancora Gladwell cita in proposito ciò che lo psicologo Michael Howe in Anatomia del genio (Il Saggiatore, 2003) ha scritto su Mozart: «…in base agli standard le sue prime opere non sono eccezionali, e tutti i primissimi pezzi furono probabilmente scritti dal padre e in seguito forse modificati. Molte composizioni infantili di Wolfgang, come i primi sette concerti per pianoforte e orchestra, sono in gran parte arrangiamenti di opere di altri compositori. Mozart compose il primo concerto originale (n. 9, K 271), considerato uno dei suoi capolavori, a ventun anni e a quell’epoca erano già dieci anni che si dedicava alla composizione».
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