Lapis roulant • Ricordo del grande scienziato, del suo talento di musicista e dei suoi incontri con Charlie Chaplin, in attesa della commemorazione delle vittime dell’Olocausto prevista come ogni anno per il 27 gennaio
di Rosario Vigliotti
N el 1926, mentre era impegnato in una serie di conferenze negli Stati Uniti, Albert Einstein incontrò Charlie Chaplin. Einstein ammirava il talento di Chaplin e fu proprio sua moglie Elsa a confidare all’attore regista inglese il desiderio che lui e suo marito scambiassero quattro chiacchiere in tutta tranquillità (Charlie Chaplin, La mia autobiografia, Mondadori 1964). Convinto dalla signora Einstein a «non fare le cose in grande», Chaplin invitò a casa sua solo altri due amici. Dopo cena, la moglie dello scienziato tedesco raccontò del lontano mattino del 1905 in cui suo marito aveva partorito la teoria della relatività. Appena svegliatosi, aveva bevuto solo un caffè e, ancora in vestaglia, si era messo a suonare il pianoforte. «Cara», le aveva detto fermandosi ogni tanto, «è un’idea fantastica, sensazionale!», e quando lei gli aveva chiesto di cosa si trattasse, lui aveva risposto che doveva prima sviluppare l’idea. E si era rimesso a suonare, fermandosi ogni tanto per prendere appunti. Dopo circa mezz’ora era andato a rinchiudersi nel suo studio, dal quale sarebbe uscito due settimane dopo con la teoria della relatività redatta su due fogli, sintetizzata nella celebre equazione E = mc2.
Quando anni dopo Chaplin ricambiò la visita dagli Einstein a Berlino, vide che il pianoforte nero su quale lo scienziato aveva abbozzato la rivoluzionaria teoria era il mobile più prezioso del loro modesto appartamento. Einstein suonava anche il violino. Prima di aver compiuto diciassette anni aveva sostenuto l’esame di musica presso la sua scuola cantonale. Amava Mozart e Brahms, e non aveva mai fatto mistero che se non fosse diventato uno scienziato sarebbe voluto essere un musicista. Ebbe modo di stringere amicizia con Artur Rubinstein, col violoncellista Gregor Piatigorsky e col violinista Bronisław Huberman. Quest’ultimo era andato a fargli visita all’Università di Princeton, nel 1936, per invitarlo a sostenere un’orchestra che avrebbe preso il nome di Israel Philharmonic. Cinque anni prima dell’incontro con Huberman, lo scienziato tedesco e sua moglie avevano intuito il terrore nazista che stava per abbattersi sulla Germania e sul mondo e avevano cercato asilo negli Stati Uniti.
Non erano riusciti a mettersi in salvo altri sei milioni e mezzo d’uomini e donne, con i loro bambini, che in nome di una religione e di un’inesistente disuguaglianza razziale avrebbero perso la vita nei campi di concentramento disseminati in mezza Europa. A loro e agli scampati all’Olocausto è dedicata la Giornata della Memoria che si celebra il 27 gennaio d’ogni anno. Commemorazione più che mai necessaria anche se si pensa agli sconsolanti risultati della ricerca condotta lo scorso anno da Klaus Schroeder, professore di scienze politiche alla Freie Universität di Berlino (vedi corriere.it del 29 giugno 2012). Metà degli studenti liceali tedeschi di cinque tra i maggiori Länder del Paese (Baviera, Baden-Württenberg, Nord Renania-Vestfalia, Sassonia-Anhalt e Turingia, tre all’Ovest e due all’Est) non sa che Hitler era un dittatore, mentre un terzo di loro pensa sia stato un protettore dei diritti umani. Dall’inchiesta di Schroeder emerge, inoltre, che quattro ragazzi intervistati su dieci ritengono del tutto simili democrazia e dittatura.
Nel 1940 Chaplin parodiò la figura di Adolf Hitler ne Il grande dittatore e, a proposito del pianoforte sul quale Einstein aveva abbozzato la teoria della relatività, annotò anni dopo nella propria autobiografia: «Mi sono spesso chiesto che fine abbia fatto. Può darsi che sia allo Smithsonian Institute o al Metropolitan Museum; ma può anche darsi che i nazisti se ne siano serviti per accendere il fuoco».
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