Concerti • Il grande pianista, presente da decenni nelle stagioni della Società del Quartetto, è ritornato ancora una volta con un programma incentrato sui suoi autori prediletti, da Bach a Chopin ai classici viennesi
di Luca Chierici
Artista legato alla Società del Quartetto dal lontano 1968, Murray Perahia ha tenuto l’altra sera con grande successo il suo decimo concerto per la veneranda istituzione, che lo considera naturale erede di Rudolf Serkin, di Perahia amico ed estimatore. Perahia è un musicista di primo piano, non vi sono dubbi, e il suo valore va ricordato considerando l’insieme degli importanti avvenimenti che hanno segnato la sua carriera sia in campo concertistico sia discografico. D’altro canto, non è impresa facile inquadrare il suo ruolo nell’attuale panorama musicale attraverso l’ascolto dei recital da lui tenuti nella nostra città negli ultimi dieci, quindici anni, sia perché lo stesso Perahia sembra alla perpetua ricerca di se stesso, sia perché vi è in lui la tendenza come a rinchiudersi in un atteggiamento che era proprio di tutta una generazione di artisti scomparsi tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, protagonisti assoluti anche in età molto avanzata di una irripetibile e mai troppo rimpianta stagione musicale.
Perahia, come per altri versi un altro grandissimo pianista come Radu Lupu, si è come rinchiuso in un universo di suoni concentrato sui nomi di Bach, di Chopin, dei classici viennesi, un universo che einsteinianamente è allo stesso tempo finito e illimitato (illimitata è infatti la ricerca che un artista può compiere attorno alla musica di quei grandi). Ma se le qualità di timbro e di fraseggio in Radu Lupu sono sempre commisurate ai parametri stilistici propri di questo o di quell’altro autore, Perahia tende oramai ad esprimersi attraverso un suono di estrema intensità e pienezza tale da prevaricare spesso il messaggio musicale di origine. Un suono che ci riporta a vecchie consuetudini quali i raddoppi al basso (nel secondo Scherzo di Chopin) o la quasi voluta mancanza di precisione o perdita di controllo in alcuni momenti topici, che ci hanno ricordato certi atteggiamenti propri di Artur Rubinstein, che nella foga di una irresistibile comunicatività poco si preoccupava del singolo dettaglio. Ma il Rubinstein di cui parliamo era alle soglie dei novant’anni e i suoi ultimi concerti datano alla fine degli anni ’70. Perahia di anni ne ha 65, e oggi siamo nel 2013, trascorsi trent’anni di ricerche specialistiche nel campo della prassi esecutiva, e quindi i paragoni non tornano.
Gli splendidi colori e l’elegante fraseggio utilizzato da Perahia nella Sonata in re maggiore di Haydn, da lui scelta per l’inizio del concerto, sono il frutto di insondabili scelte di natura psicologica, non di un programma razionale, così come il suono sempre pieno e vibrante utilizzato nella quarta Suite francese di Bach assomigliava troppo a quello scelto per la beethoveniana “Sonata degli addii” e per i Momenti musicali di Schubert, addirittura per le due pagine chopiniane poste al termine della serata. Si tratta di caratteristiche che limitano sicuramente il ruolo di Perahia nella storia delle interpretazione pianistica ma non scalfiscono il suo rapporto con un pubblico affezionato che lo segue con affetto e ammira la grande partecipazione emotiva nei confronti del repertorio da lui affrontato. I momenti più riusciti della serata al “Quartetto” sono stati sicuramente quelli dedicati a Haydn, come già accennato, e allo Chopin dell’Improvviso op. 36, risolto con ammirevole scelta dei contrasti e con entusiasmo contagioso nell’ebbrezza del cantabile che si staglia sopra il veloce jeu perlé della mano destra. Un bis schubertiano tra i prediletti del pianista (l’Improvviso in mi bemolle maggiore, secondo dell’op. 90) e l’Intermezzo op. 119 n. 3 di Brahms (encore questa volta scelto alla memoria di Serkin) hanno concluso la felice serata.
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Può essere che a una icona del pianismo mondiale si debba una sorta di assoluzione preventiva ma l’op. 106 di Beethoven é stata un vero disastro soprattutto nella fuga finale affrontata con il metronomo beethoveniano, notariamente insostenibile. Errori continui, assenza di fraseggio in una sorta di cavalcata senza senso. Una esecuzione da dimenticare