Il giovane interprete si è esibito nel Concerto op.54 con la Filarmonica diretta da Daniel Harding. Nella stessa serata una sinfonia di Schubert e la prima assoluta di Another’s Hell di Mauro Montalbetti
di Luca Chierici
ALL’APERTURA DELLA STAGIONE della Filarmonica della Scala dopo la pausa natalizia il pubblico ha accolto con molti applausi il ritorno di Daniel Harding, impegnato in questo periodo in teatro per le repliche dell’insolito trittico Fokine-Petit-Mascagni. Direttore eclettico abituato a muoversi con sicurezza all’interno di un repertorio molto vasto, Harding si è cimentato in un programma che comprendeva la presentazione di un lavoro appositamente commissionato dalla Filarmonica al compositore Mauro Montalbetti, nell’ambito delle celebrazioni del 450mo anniversario della nascita di Shakespeare, cui seguivano il Concerto op.54 di Schumann e la grande Sinfonia in do maggiore di Schubert. Another’s Hell di Montalbetti è un lavoro nel quale si notano l’abile sfruttamento delle risorse di una grande orchestra, certi effetti non comuni di impasti sonori, il trattamento delle percussioni a fini che appaiono descrittivi. Poche o nulle sono le analogie percepibili con il mondo dei Sonnets scespiriani presi a modello da Montalbetti, né le scarne note di presentazione dello stesso compositore possono aiutare in alcun modo l’ascoltatore a districarsi a questo proposito nel labirinto dei suoni.
A Daniel Harding si possono riconoscere davvero moltissime qualità, forse non quella di abbandonarsi a un eloquio in linea con i contenuti più affascinanti e misteriosi del melos schumanniano e schubertiano, prevalendo in lui un’asciuttezza di linguaggio che poco concede alle emozioni. Il capolavoro di Schubert, riscoperto da Schumann e presentato in pubblico per la prima volta da Mendelssohn, è opera assai complessa che offre all’interprete non pochi grattacapi interpretativi dovuti alle dimensioni insolite, al linguaggio che utilizza spesso cellule ripetitive (i ritmi puntati, ad esempio) già anticipatrici di certi esiti bruckneriani. Harding ha affrontato e risolto con successo i problemi tecnici ma non è riuscito a comunicare quel senso di stupefatta ammirazione che traspare dalle parole di Schumann relative a un ritrovamento che ai tempi apparve simile a una sorta di evento magico. Certi particolari nell’ultimo movimento, che raggiunge vette espressive così lontane dalle assertività beethoveniane, sono stati comunque messi in risalto da Harding con grande gusto e perfetta conoscenza del melos schubertiano, evidenziando ad esempio movimenti interni delle voci che presagiscono le “Innere Stimmen” schumanniane. La stessa tipologia di voci interne che venivano del tutto travisate dal giovane Jan Lisiecki nella sua esecuzione approssimativa e per nulla affascinante di uno dei testi sacri del pianoforte romantico. Lisiecki, biondo e allampanato diciottenne polacco che è stato improvvisamente proiettato in una carriera concertistica e discografica da primato senza aver vinto neppure un concorso importante, ha affascinato senza dubbio gran parte del pubblico meno consapevole (“Càspita che soddisfazione: a 18 anni alla Scala !” come se si trattasse di un luogo dedicato al ballo delle debuttanti).
Abituati a un contesto in cui il marketing riesce a gestire con sfrontatezza la presenza insistita di solisti che un tempo non avrebbero certo riscosso le stesse attenzioni, non ci meravigliamo più di tanto di fronte al caso Lisiecki. E non abbiamo neanche avuto – con questo Schumann – l’occasione di attendere la formulazione di un giudizio completo dopo la prova del nove dell’ascolto di un intero recital. Lisiecki scopre le sue carte fin dall’inizio, con un suono legnoso, spigoloso che non rende giustizia all’impeto degli accordi d’apertura e con una scansione del tema principale che travisa la metrica del tema stesso. L’essenza del cantabile manca del tutto, ed è erroneamente sostituita da mille indugi e rallentamenti che si pongono in netto contrasto con le parti più mosse del discorso, là dove la scrittura schumanniana invece di essere riconosciuta come appassionato sostegno a un percorso narrativo colmo di fantasia viene retrodatata fino a confonderla con quella spesso (ma non sempre) superficiale di autori alla moda che dal musicista venivano tenuti in pessimo conto. Errori e imprecisioni possono essere frutto di una serata particolare, ma l’impostazione della lettura di Lisiecki non era lontana da quella avvenuta sei mesi fa accanto a Pappano e all’Orchestra di Santa Cecilia. Pappano era riuscito però in quella occasione ad imporsi, cosa che non ha fatto Harding, travolto dal pianista e corresponsabile di molte asincronie tra solista e orchestra.
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