Un concerto di successo con un raffinato programma: pagine di Weber, Elgar, Mozart
di Luca Chierici
CON UN PROGRAMMA di raffinata impaginazione Daniel Barenboim si è nuovamente presentato al pubblico milanese durante le pause delle prove per il raro titolo operistico di Rimskij-Korsakov (Una sposa per lo Zar) in scena alla Scala nella prima metà di marzo. Un programma difficile che accostava tre lavori tra loro molto differenti e per i quali sarebbe oltremodo difficile avanzare ipotesi di parentela, ma che sembravano fatti apposta per scuotere l’attenzione dell’ascoltatore a meno che lo stesso non fosse refrattario alle suggestioni magiche del mondo fatato dell’Oberon di Weber, poco curioso nei confronti di una densa e importante partitura di Elgar o peggio ancora per nulla interessato a uno dei grandi capolavori mozartiani nel comparto dei concerti per pianoforte e orchestra. Un programma che sembrava fatto apposta anche per mettere a dura prova i componenti dell’orchestra, le cui prime parti erano spesso chiamate a cimenti individuali di grande impegno. Ma l’orchestra tutta ha dovuto lavorare non poco – questo è risultato evidente anche a chi non aveva sottomano la partitura – nel perfezionare l’esecuzione dell’importante Studio sinfonico dedicato alla figura di Falstaff da parte del più noto tra i musicisti inglesi vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento. L’ignoranza del repertorio inglese è peccato originale di tutti noi musicofili latini, e solamente l’ascolto di dosi massicce di Elgar, Vaughan-Williams, Parry, Stanford, Delius, Bowen, Bax e di tante altre voci ben note ai nostri cugini britannici potrebbe colmare un vuoto che non ha più ragion d’essere e cercare di metter al bando pregiudizi duri a morire sulla presunta scarsa comunicatività di gran parte di quella musica. Nello Studio di Elgar vi sono oltretutto continui riferimenti programmatici a un personaggio che è ben diverso da quello che siamo abituati a considerare ogniqualvolta ci abbandoniamo alle suggestioni verdiane: diverso e più complesso perché gli inglesi conoscono molto meglio di noi le sfaccettature di un Falstaff che viene descritto minuziosamente attraverso tre lavori teatrali del più celebre drammaturgo britannico. D’altro canto l’analisi minuziosa di questa musica a programma non è certo il metodo migliore per cercare di penetrare in un universo di suoni che appare davvero ostico, spigoloso, ben di rado comprensibile a partire dai pochi frammenti melodici che rivestono la funzione di altrettanti temi caratteristici nel lavoro di Elgar.
Evidenti debiti nei confronti di alcuni poemi sinfonici di Richard Strauss si ravvisano in questo Falstaff, ma è ancor di più il carattere di certe partiture lisztiane (a loro volta legate indissolubilmente a quelle di Richard II) a rappresentare la genesi di un lavoro per altri versi poco comprensibile. Ciò che Elgar richiede qui all’orchestra e alle parti principali può essere riguardato nei termini di un rapporto sadico che rischia di coinvolgere anche il direttore, costretto a pretendere l’impossibile da coloro che in prima istanza rappresentano il veicolo insostituibile per dare vita al fenomeno interpretativo. Nell’esecuzione della partitura di Elgar la Filarmonica ha dato l’altra sera una delle prove più alte delle proprie capacità, senza poter attingere a esperienze pregresse, senza poter contare sulla conoscenza di un suono e di un fraseggio derivati dalla pratica più consona al suo imprinting. E Barenboim ha di nuovo suscitato sentimenti di ammirazione per la perfetta padronanza di un linguaggio così difficile e per la perfetta immedesimazione che lo ha portato a condurre in porto l’impresa senza neppure l’ausilio della partitura aperta sul leggio. Altre meraviglie sono del resto state svelate da lui, in un vero e proprio stato di grazia, quando è arrivato il tanto atteso momento mozartiano, posto emblematicamente al termine della serata.
Non è certo necessario tessere gli elogi di un Concerto che a ragione può essere considerato tra le cose più belle in assoluto scritte da Mozart, ma non semplice è la sua realizzazione, che tra le altre cose richiede una compenetrazione totale tra lo strumento solista e l’orchestra tutta, con un particolare riferimento alla sezione dei fiati. Ma Barenboim è andato anche al di là della perfezione perché ha comunicato ai presenti quello che deve per forza essere un suo rapporto del tutto particolare con il K 482. Non si spiegherebbero altrimenti certi atteggiamenti di sincero affetto nel sottolineare i richiami più segreti della partitura, le reminiscenze operistiche, i misteriosi accenni ai riti massonici, tutto un mondo di ricordi attraverso i quali l’Autore sembra voler citare affettuosamente se stesso: elementi condensati da Barenboim anche nelle cadenze da lui utilizzate, una sorta di compendio di tante altre cadenze scritte nel passato da tutti coloro che hanno tentato di colmare un vuoto ineluttabile dovuto alla mancanza degli spunti originali del musicista. Il pubblico ha reagito con applausi intensi e grida di “bravo!” soprattutto al termine della prova mozartiana, alla quale Barenboim ha opportunamente deciso di non dar seguito con la scelta di un bis che avrebbe in ogni caso guastato la magia del momento.
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