Al Festival Pianistico Internazionale si è esibito il pianista russo: suono meraviglioso
di Luca Chierici
NON ASCOLTAVAMO MIKHAIL PLETNEV, considerato da molti uno dei più grandi pianisti degli ultimi quarant’anni, dal 2006, anno in cui si era nuovamente presentato a Milano per le Serate Musicali in un recital che interrompeva per un momento la sua sempre più assidua carriera di direttore d’orchestra. Il debutto milanese di Pletnev era avvenuto nel lontano 1981, auspice gli Euroconcerti, che a quei tempi permettevano al grande pubblico di ascoltare per la prima volta artisti del livello di Berman o di Zhukov. Le ultime apparizioni milanesi di Pletnev (ancora nel 2004 per la Società del Quartetto, ad esempio) avevano lasciato più di un dubbio nell’ascoltatore, che si trovava di fronte a uno strumentista di qualità eccelse e allo stesso tempo a un interprete che si permetteva deviazioni non poco sconcertanti nel fraseggio, come negli stessi anni era solito fare un altro bizzarro personaggio, Ivo Pogorelich. Con Pogorelich, e con un altro grandissimo della tastiera (Michelangeli) Pletnev aveva in comune un suono di una nitidezza spettacolare e l’occorrenza rarissima dell’errore tecnico (che è un elemento pur sempre apprezzabile, perché sembra trascendere persino le leggi della statistica). E al modo di Michelangeli, con incedere lentissimo e con scarsa o nulla tendenza all’inchino, Pletnev si è avvicinato allo strumento lunedì scorso sul palcoscenico del Teatro Donizetti di Bergamo, nel contesto del cinquantunesimo Festival che onora la città a fianco della vicina Brescia. Ferme restando le qualità di un pianismo eccezionale (lo strumento presente in sala era un ottimo Kawai, che sotto le mani di Pletnev ha risuonato come se si trattasse di un concentrato dei dieci migliori pianoforti ascoltati negli ultimi cinquant’anni) si è ammirato in lui il ritorno a una espressività più contenuta, assenti quegli eccessi che avevano portato ad avanzare alcune critiche dieci anni orsono. Mancano sicuramente in Pletnev quelle caratteristiche proprie di pianisti più viscerali (come Richter o Gilels, per rimanere in terra russa) che ti coinvolgono fino alla sofferenza, ma sarebbe del tutto errato indicare nei suoi raggiungimenti solamente il frutto di un rapporto edonistico con la tastiera e con la musica. Per un pianista come Pletnev, così come per Michelangeli, la bellezza assoluta del mezzo sonoro è in realtà anche una maschera che nasconde significati ben più complessi, verità apertamente inconfessabili.
Il programma dell’altra sera mostrava un impaginato che tendeva all’understatement, alla mancata esibizione di qualsiasi fuoco d’artifico (ma i pianisti sanno quante insidie si incontrano in quel capolavoro schumanniano che è Humoreske) e si dipanava attraverso un percorso piuttosto misterioso. Non ricordiamo aperture di recital che prevedessero la Sonata op.14 n.2 di Beethoven, seguita dalla famosa “Tempesta”, ambedue condotte con parsimonia di effetti e – per quanto riguarda la seconda – astensione dal sottolineare caratteri eccessivamente tragici o inquieti che tradizionalmente vengono associati nell’interpretazione di questo luogo davvero magico. Di Humoreske si è ammirata sia la cosiddetta “lettura a due livelli” (semplicità di eloquio ma anche lavorìo sotterraneo delle innere stimmen) che la straordinaria facilità con la quale Pletnev ha risolto alcuni passaggi notoriamente complessi, in uno stato di apparente beata tranquillità e senza tradire il minimo sforzo.
La sorpresa finale, ulteriore elemento di successo di questo magnifico recital, è arrivata tramite l’ esecuzione dei 24 preludi dell’opera 11 di Skrjabin, lavoro snobbato nella sua interezza da quasi tutti i pianisti presenti e passati, forse perché appartenente ancora alla prima fase “post-chopiniana” del musicista russo. Riprendendo, chissà, un’idea del già citato Igor Zhukov e di Sofronitzky (che davano di questa serie di pezzi brevi una lettura bellissima) Pletnev ha colto tutto il fascino ambiguo di una musica che come unica colpa ha quella di essere stata scritta troppo in là (1894-1895, con idee risalenti ad alcuni anni prima) rispetto agli sviluppi del linguaggio occidentale. Un poco di Chopin, sì, ma anche uno struggente condensato dello Skrjabin più tenero e malinconico immerso in un salotto di fine secolo dove il tempo sembra essersi arrestato. E dallo stesso salotto uscivano anche le filigrane dell’unico bis concesso da Pletnev, quell’inflazionatissimo Notturno in do# op.postuma di Chopin che oggi si può ancora sopportare a patto che venga eseguito proprio così.