Alla direzione della London Symphony Orchestra per il Terzo Concerto per pianoforte di Beethoven e la Quarta Sinfonia di Bruckner al Lingotto
di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
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Quarto (e alquanto atteso) appuntamento di stagione per i concerti dell’Associazione Lingotto Musica, a Torino, presso l’Auditorium di via Nizza progettato da Renzo Piano. Dopo l’apertura con l’Orchestra del Comunale di Bologna, i Dodici cellisti dei Berliner Philharmoniker e il recital solistico del norvegese Leif Ove Andsnes, la sera di martedì 1° dicembre 2015 ecco presentarsi sul palco del Lingotto la London Symphony Orchestra per la direzione di Daniel Harding. Impegnativo il programma, con due pagine eccelse del panorama austro-tedesco dell’Ottocento di Beethoven e Bruckner. Partiamo allora da quest’ultimo del quale Harding ha diretto la sterminata Quarta Sinfonia detta ‘Romantica’. Non che le attese siano state deluse, ci mancherebbe, pur tuttavia è stata un’interpretazione – quella di Harding – cha solo in parte ha convinto. Una lettura molto analitica, e dunque si è avuto modo di apprezzare opportunamente le molte zone cameristiche che dilagano (spesso con debordante prolissità) in questo capolavoro (o quanto meno ritenuto tale) del panorama sinfonico del tardo-Romanticismo; la Quarta infatti, si sa, non è solo clangori (spesso pseudo wagneriani), magniloquenti e un po’ retoriche fanfare, scalpiccio cavalleresco di cavalli e clima da leggenda (come nel celeberrimo Scherzo dall’indimenticabile, luminescente attacco), la Quarta contempla bensì anche rarefazioni, radure, zone di infinita quiete (vagamente apparentabili a certi passi della Quarta di Mahler, ma solo vagamente) e altro ancora.
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Soffermarsi sui molti dettagli di un panorama sì ampio, su uno scenario dell’anima sì variegato e composito è scelta senz’altro possibile e financo condivisibile. A patto che non si perda di vista il tutto. Il rischio infatti è che l’insieme risulti un poco, come dire, ‘sfilacciato’, un tantino spaesato, stranito, ed è l’impressione che si ricavava al termine dell’esecuzione (addirittura il pubblico ha esitato alcuni lunghi secondi prima di abbandonarsi a cordiali applausi, colpa di un voluto indugio di Harding con la bacchetta alzata, un piccolo innocuo malinteso, ma forse innescatosi non del tutto a caso a seguito di una lettura che ha lasciato un poco sorpresi e perplessi, benché poi gli applausi siano fioccati copiosi).
Tempi giusti, una cura maniacale dei dettagli ad esempio dinamici (verificati in partitura, per onestà intellettuale posso assicurarlo ai nostri lettori), una compagine sì in buona forma, ma con qualche piccolo neo ed occasionali défaillances qua e là, a dire il vero piuttosto sorprendenti in una formazione del livello della LSO, ottimi archi, legni di indicibile bellezza, buoni ottoni e via elencando. A conti fatti se le altisonanti fanfare del primo tempo hanno regalato qualche brivido (superficiale ed epidermico), così pure se sono piaciute le atmosfere incandescenti e ottimistiche del già citato Scherzo (nel quale tuttavia avremmo voluto però più abbandoni, più ‘tira e molla’ nelle parti degli archi, più sensualità e meno rigidità teutonica), il movimento che è piaciuto forse maggiormente è stato l’Andante con quel tema dei violoncelli, struggente e mesto, impregnato di melanconica humanitas e un unico apice dinamico verso la fine, prima che si richiuda su se stesso con sconforto e desolata tristezza, unico movimento in cui il buon Bruckner pare sincero e sembra deporre la maschera senza atteggiarsi. Ecco, qui il clima raccolto era davvero a posto, le sonorità giuste, la Stimmung centrata. Per contro l’impressione di una certa dispersione s’è avuta massimamente nel vasto Finale, da cui l’esitazione del pubblico al termine.
La serata s’era aperta col sublime Terzo Concerto op. 37 per pianoforte e orchestra di Beethoven; alla tastiera la raffinata, elegante e dolcissima Maria João Pires. Che intende questo capolavoro in maniera molto mozartian-schubertiana (al contrario di Harding) e il gap, lo iato interpretativo lo si è percepito fin dall’attacco: Harding e la LSO squadrati e icastici, fin dall’esordio (preso con un tempo tranquillo sì da consentire di ammirare tutte le delizie del Concerto stesso). All’entrata della solista la pagina pareva come trasfigurata, suono amabile, perlaceo e delicato e quel secondo tema in mi bemolle maggiore, da ‘società filantropica’, come un caldo abbraccio fraterno, un’ondata di dolce e amicale solidarietà quasi a rimandare a certi passi del Fidelio. Quanta magìa all’inizio dello sviluppo con quei misteriosi, arcani interrogativi rilanciati tra solista e fiati, poi la cadenza che la Pires ha dipanato con molta intelligenza e impeccabile puntualità, pur rifuggendo (per fortuna) dal tecnicismo algido e dall’atletismo esibito di troppi pianisti d’oggidì, rivelando – quasi una lezione di stile – come nella cadenza già si annidino mirabili aperture sulle siderali bellezze dei successivi Quarto e Quinto Concerto (certe sonorità da glockenspiel, il gioco iridescente dei trilli, alcune avanzate intuizioni armoniche e altro ancora). Indimenticabile il passo del timpano solista che interloquisce misteriosamente col pianoforte, avviando l’ultima parte del movimento (ma altrove il timpanista, che pure in Bruckner ha saputo sfoderare pianissimi di incredibile delicatezza, qui nel Terzo di Beethoven, chissà perché, ha ‘sparato’ gragnole sferzate da un’aggressività e un’asprezza francamente eccessive, se non del tutto fuori luogo e fuori stile).
Superbo il movimento centrale, quasi ‘parlante’ l’attacco della Pires, come implorante e umanissimo, e quelle frasi liriche effusive, come da Andante del K 467, giù giù sino alle lunari, oniriche visioni delle ultimissime battute di questo Largo, giustamente da annoverare tra le più toccanti pagine beethoveniane. Poi il Finale nel quale è mancato un poco quello spirito umoristico che dovrebbe caratterizzarlo; bene i passi cantabili (la frase del clarinetto come di Serenata), ma forse si sarebbe potuto indulgere a un pizzico di arguzia in più, pur senza gli eccessi zingareschi e ungheresi che altri pianisti enfatizzano ad arte con circense e capziosa sfrontatezza (il passo celeberrimo a ottave alternate che taluni suonano con balzelloni vistosi e un po’ risibili e che invece la Pires ha affrontano con indicibile misura e sobrietà). Quel che è mancato – almeno così ci è parso – è stata una visone unitaria, un comune sentire, da parte di direttore e solista, come se i due puntassero, in più d’un caso, l’una in una direzione e l’altro in quella addirittura opposta. Peccato davvero, un’occasione in parte mancata. Nessun bis da parte dell’amabilissima e mite solista (forse per la stanchezza, forse semplicemente per preciso accordo con direttore e professori d’orchestra, data la mole già oltremodo corposa dei brani in programma). Prossimo appuntamento al Lingotto il 4 febbraio 2016, con Gatti e la Mahler Chamber Orchestra: per la prosecuzione dell’integrale beethoveniana con Sesta e Settima Sinfonia.
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