Al Lingotto di Torino il direttore dal gesto esuberante e sicuro, rassicurante. Il pianista Kirill Gerstein offre una lettura profonda e non atletica del Primo di Čajkovskij
di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
Serata di indicibili emozioni, per la stagione di Lingotto Musica, lunedì 29 febbraio 2016, con la Czech Philharmonic diretta dal fuoriclasse Jiří Bélohlávek e un programma per due terzi orientato sul nume tutelare Dvořák (avrebbe dovuto essere per intero dedicato all’autore boemo, ma poi dalla scaletta è scomparso il previsto Concerto per violino). Piatto forte della serata la Sesta Sinfonia che – purtroppo – (nella media) si ascolta poco, quanto meno non così di frequente come la superba Ottava (in assoluto la migliore, la più riuscita, assolutamente perfetta nel suo mix di melanconia e serenità), della gettonatissima e fin troppo cinematografica Nona Dal Nuovo Mondo ed anche della poetica e assai felice Settima. L’ascolto della Sesta nell’interpretazione di lusso della Czech Philharmonic ha letteralmente infiammato la platea del Lingotto ed è stato un (meritato) trionfo di pubblico.
Bélohlávek, gesto esuberante e sicuro, rassicurante, sempre funzionale al risultato sonoro
C’è poco da fare: gli ottimi professori della formazione ceca Dvořák ce lo hanno nel sangue. Del resto, con i suoi 120 anni di attività, la Czech Philharmonic fece in tempo ad essere diretta addirittura dallo stesso Dvořák (nel 1896, in occasione del concerto inaugurale, quindici anni dopo la fortunata première praghese della Sesta). E si tratta di una delle migliori orchestre su scala mondiale. Ottoni strepitosi, archi dalla pasta corposa – appena qualche asprezza qua e là – (formazione extra large con ben otto contrabbassi, violoncelli, viole e violini in proporzione crescente, come di norma), prime parti di eccellente livello, una coesione indicibile e, insomma, un gran bel suono. E così fin dall’attacco del luminoso Allegro d’esordio, tutto ritmi pimpanti e temi popolari, il colore e l’allure erano quelle giuste: a restituire al meglio l’indovinata miscela di profumo slavo e reminiscenze brahmsiane, riformulate con mano sapiente e personale cifra.

Bélohlávek, gesto esuberante e sicuro, rassicurante, sempre funzionale al risultato sonoro, ha guidato con tratti felici questo primo tempo affrontando poi il lirismo dell’Adagio con toccante tenerezza, senza trascurare quelle improvvise eccitazioni ritmiche che ne sono uno dei tratti salienti. Il vero clou – ovviamente – nell’indiavolato Furiant dal bel trio centrale tutto echi di legni, che non a caso fu bissato fin dalla prima assoluta della Sinfonia: uno Scherzo innervato di brio e informato a quell’esaltazione coloristica del folklore slavo che di Dvořák è la più autentica firma. Tutto in crescendo il Finale, esuberante e vitalistico, sereno e aproblematico, echi di ruvide e bonarie danze paesane, ma condotte all’insegna di una raffinata e magistrale eleganza.
E allora come bis, quasi non bastasse la prova di bravura fornita con la Sesta, ecco Smetana e la brillantissima, irresistibile Ouvertura dalla Sposa venduta affrontata a velocità supersonica, una esecuzione al fulmicotone che ha ulteriormente fatto innalzare la temperatura della sala, magnetizzando l’intero pubblico. In apertura di serata aveva fatto la sua comparsa, ancora di Dvořák, l’Ouverture op. 93, Othello, una relativa rarità, pezzo amabile, di grana fine e di ottima fattura: sulla cui interpretazione purtroppo non mi è possibile riferire in prima persona, essendo arrivato in sala in ritardo per un maledetto disguido ferroviario. Ma le impressioni raccolte da amici e colleghi confermano che si era trattato di un ottimo inizio.
A centro programma la graditissima presenza del pianista russo Kirill Gerstein che ha interpretato con rara finezza e con molta sensibilità il notissimo Primo Concerto di Čajkovskij, insomma l’op. 23 in si bemolle minore. E lo ha eseguito nella versione del 1879 che in vari punti si discosta da quanto siamo abituati a sentire. L’impressione generale che se ne è ricavata è la tendenza (più che apprezzabile) da parte di Gerstein a non privilegiare, come in troppi fanno, solo la dimensione atletico-virtuosistica del pur spettacolare Concerto. E allora quanta finezza e quanta delicatezza nel movimento lento, il sublime Andantino semplice dalle mille preziosità timbriche e quanta grazia nel pur estroverso finale, con poche concessioni a quelle vistose e plateali esuberanze che molti ‘colleghi’ di Gerstein accentuano capziosamente accattivandosi l’urlo delle masse. Pur forte di una tecnica solidissima, impeccabile e sicura, Gerstein privilegia dove è opportuno l’aspetto intimista, la ricerca della bella sonorità, evitando quelle gragnole martellanti in cui altri sguazzano compiacendo il pubblico con facile concessione. Beninteso, il suo non è certo un suono esangue, tutt’altro, pur tuttavia l’impressione è che – in piena sintonia con direttore e orchestra – abbia inteso per così dire spogliare la pagina da certi suoi orpelli cinematografici e altisonanti che pure da sempre ne hanno garantito l’enorme popolarità.
Non a caso il bis che ha sciorinato con soave raffinatezza andava proprio in questa direzione: e si è trattato del rarefatto e iridescente Studio in la bemolle maggiore op. 36 per la sola mano sinistra dell’ucraino Felix Blumenfeld: una delizia di timbri e di perlacee squisitezze. Manco a dirlo, applausi a non finire e una vera standing ovation per l’eccellente pianista, nel contempo festa grande a direttore e orchestrali.