di Attilio Piovano foto © Keith Saunders
Grande (e comprensibile) attesa a Torino per il concerto di chiusura della stagione sinfonica del Teatro Regio, la sera dello scorso 1° giugno 2019; sul podio un vero e proprio mito vivente, il leggendario Vladimir Ashkenazy, tra i pochi musicisti al mondo che abbiano raggiunto vertici assoluti sia in veste di pianisti sia di direttori (vengono in mente i nomi di Barenboim e pochi altri, ma stanno tutti sulle dita di una mano). Orchestra in gran spolvero e serata di enorme successo con la quale il Regio ha davvero fatto il botto.
Ultra ottuagenario, corporatura minuta, il sorriso affabile rivolto a tutti (per primi ai professori d’orchestra), una mitezza contagiosa e una gestualità personalissima, a tratti quasi buffa – con quell’inarcare la schiena e quel dondolare le spalle – che ricorda curiosamente certe caratteristiche posture dei pur diversissimi Toscanini e Bernstein. Ashkenazy in realtà sprigiona tuttora un magnetismo indicibile, infuocando l’intera orchestra con la sua bacchetta precisa, il gesto sempre funzionale al risultato sonoro ch’egli intende ottenere, costantemente teso alla cura dei dettagli, ma senza mai perdere di vista la visione d’insieme, la curva espressiva del brano. E gli orchestrali suonano con visibile piacere, massimo impegno, ma anche – verrebbe da dire – distesa serenità. Segno e dimostrazione palese che dirigere non è solo questione tecnica ma anche (anzi, soprattutto) faccenda di feeling e di rapporti umani, di fiducia reciproca e di gioia sincera nel far musica insieme. In altre parole Ashkenazy è uno di quei direttori che, pur non lasciando nulla al caso, pur curando con maniacale scrupolo ogni dettaglio (ritmico, espressivo, di fraseggio e quant’altro), ‘lascia suonare’ l’orchestra, sbrigliandola e quasi ‘incoraggiandola’, senza mai costringerla o ingessarla. E il risultato si sente.
Ecco allora il Ravel dell’irresistibile seconda suite dal balletto Daphnis et Chloé. Ashkenazy ne ha perfettamente colto l’essenza, centellinando con cura la prima parte (Lever du jour) incentrata sull’evocazione del progressivo, mirifico risvegliarsi della natura, sì da evidenziarne l’allure impressionista, flou ed evanescente, il lirismo pudico, graduando il crescendo con millimetrico equilibrio e ponendo in luce le mille rifrazioni timbriche di cui la pagina è costellata, puntando poi sul carattere meccanico, ritmicamente martellato della Pantomime e soprattutto dell’orgiastica Danse finale dallo scintillio sfavillante che Ashkenazy ha reso tellurica come pochi altri, trascinando l’intera orchestra in un tripudio di rutilanti, esacerbate sonorità.
Analogamente, Ashkenazy si è rivelato ammirevole nell’imprimere una precisa e riconoscibilissima ‘linea’ espressiva alla sublime Decima di Šostakovič, composta nel 1953, l’anno della morte di Stalin, e volta a ritrarre in maniera grottesca e impietosa il dittatore sovietico. Emblematica – dopo il protratto e vasto Moderato in cui a dominare è una lugubre tetraggine (ma anche ritmi sghembi ed esasperate sonorità) – la lettura del secondo movimento, un Allegro dal galoppo forsennato, volto a sbozzare appunto la ferocia del dittatore: pagina dai bagliori sinistri e dal fulmineo saettare, con quelle scariche di fucileria da dare i brividi, che Ashkenazy ha affrontato infondendovi un’incredibile carica energetica, a significare l’angoscia di un’epoca disseminata da violenze e soprusi. Sicché – per contrasto – l’iniziale desolazione (in apertura di Sinfonia) con quei contrabbassi catramosi e cupi, è parsa ancor più sconvolgente. Anche l’Allegretto in terza posizione, coi suoi straniti ritmi di valzer, quasi trivial musik, caricaturali e lividi, ha regalato emozioni e ne è emerso qua e là perfino quel quid di caucasico che innegabilmente vi è racchiuso; poi il conflagrare del finale dagli assunti programmatici (la contrapposizione tra l’individualità del musicista e lo sciagurato profilo del dittatore) finale salutato da uno scrosciante trionfo di applausi al venerando direttore e all’Orchestra del Regio, ammirata per la gran bella prova fornita: a dir poco indimenticabile. Così come a lungo conserveremo memoria del puntuale, affettuoso scrupolo con cui Ashkenazy, come d’uso, ma seguendo un ordine tutto suo (che si era accuratamente annotato su un foglietto di taccuino, con un gesto che ha suscitato partecipe tenerezza) ha inteso far alzare le varie prime parti additandole al pubblico, sì da rendere il giusto tributo ai singoli musicisti
In apertura si era ascoltato Sirènes il terzo dei Nocturnes di Debussy dalla singolare vaghezza e dalle fascinose cromati, con l’apporto rilevante (anche se all’esordio non impeccabile) del Coro femminile del Regio, istruito da Andrea Secchi: coro adottato dal colorista Debussy – come noto – in funzione timbrica, non a caso non vi è testo, ma solo un lungo protratto vocalizzo ad evocare per l’appunto le sirene di mitologica memoria. Ashkenazy, che sulla partitura deve aver compiuto un accuratissimo lavoro di concertazione, ne ha sorprendentemente ‘dilatato’ i tempi evitando peraltro il rischio che la tensione venisse meno e – soprattutto – rivelando una sua lucida visione interpretativa e vasta cultura.
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A fine serata, all’ingresso artisti, un gruppo di fans attende per il rito degli autografi, tra essi anche chi firma queste note. E allora, deposta la penna del critico, mi perdonino i lettori se riferirò in chiusura una piccola e forse insignificante circostanza personale: non già per stupida vanità, bensì per far emergere ancor più nitida l’humanitas di Ashkenazy. Venuto il mio turno, porgo dunque anch’io il programma di sala della serata, sul quale il maestro appone con ormai rassegnata mansuetudine l’ennesima firma, vergandola con grafia chiarissima e minuta. Gli esprimo la mia gratitudine incrociando il suo sguardo benevolo e nel contempo estraggo dalla tasca della giacca un altro programma di sala che firmai nel lontano 1990, per un concerto di Settembre Musica, in occasione del quale Ashkenazy al Regio aveva interpretato il pianistico Quarto Concerto di Beethoven e – come ora – proprio la Decima di Šostakovič, suo cavallo di battaglia. Accompagno il gesto con poche parole in inglese e l’osservo mentre a sua volta studia incuriosito e un po’ stupito quella copertina azzurra segnata dal tempo, cercando di intuirne le reazioni. Ashkenazy firma anche questo secondo programma e nuovamente mi sorride porgendomelo, sicché incrocio ancora il suo sguardo dolce. Di quel concerto – per intuibili ragioni – conservo un ricordo nettissimo e nel tumulto dei pensieri vorrei dirgli mille cose, tentare un raffronto tra ‘quella’ Decima e quanto appena ascoltato, vorrei esprimergli tutta la mia ammirazione per l’Ashkenazy pianista, oltre che direttore, rammentando esattamente ‘quel’ Quarto di Beethoven, ma non c’è tempo ed altri attendono alle mie spalle, stringendo spasmodicamente booklet di cd ed eleganti stilografiche, locandine e volgari penne a sfera, perfino pennarelli dalla punta fine (totalmente inadatti agli autografi, dacché ‘sbavano’). Gli domando a bruciapelo se a sua volta ricorda quella sua incursione torinese di trent’anni or sono: quasi scusandosi, in risposta alla banale stupidità del mio quesito si limita a sussurrarmi: «…so many years… a lot of recitals…», tracciando un gesto vago della mano e roteando lo sguardo con un filo di smarrimento; e lo dice con incredibile pacata semplicità, lontano anni luce dalla sicumera arrogante e frettolosa di ben altri suoi ‘colleghi’ di statura infinitamente più piccola, che pure si atteggiano a divi.
Maestro: Le sarò grato per sempre, non tanto per l’autografo ‘ postumo’ vergato su quelle mie modeste note di sala (che conserverò peraltro tra i ricordi più cari), quanto per la Sua immensa lezione: da vero artigiano-artista, una vita intera al servizio dell’arte e della musica. Proiettato sul futuro.