di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolo
È approdata per la prima volta a Torino la Malmö Symphony Orchestra, per la stagione di Lingotto Musica, la sera di martedì 4 febbraio 2020. Sul podio il texano Robert Trevino che ne è il direttore principale. Gesto preciso ed espressivo, sempre funzionale al risultato che intende ottenere, ha diretto con molto garbo e finezza la beethoveniana Settima (nell’anno dei festeggiamenti per il 250° di Ludwig) potendo contare su un complesso di buon livello, anche se – occorre ammetterlo – un poco al di sotto degli standard delle migliori compagini internazionali. Una lettura corretta e fascinosa, la sua, lontana dagli eccessi dionisiaci di certi direttori, ma ugualmente in grado di sprigionare tutta la carica energetica insita nella Sinfonia stessa.
E allora bene il primo tempo affrontato alla giusta velocità, con attenzione alle dinamiche e ai dettagli. Molto bene il sublime Allegretto che talora si ascolta troppo estenuato e lento, mentre talaltra pare invece ‘tirato via’. Trevino ha impresso tempi giusti, sapendo guidare con sicurezza l’orchestra in certi insidiosi passaggi dove la scansione ritmica è mutevole, quando ad esempio nel procedere delle variazioni si avanzano dapprima le terzine e poi le figurazioni in semi crome (e capita che anche grandi orchestre talora non siano del tutto in asse). Molto preciso ed efficace il fugato, asciutto e virile, senza inutili smancerie. Trevino ha poi fatto scintillare quanto occorre l’energetico Scherzo, ponendo in evidenza, ma sempre con misura, i celeberrimi spostamenti d’accento, facendolo reagire con il più pacato Trio centrale. Molto veloce il Finale eseguito con la giusta verve e la necessaria souplesse, ancora una esecuzione energetica, ma non orgiastica, incisiva, ma non capziosamente sfrenata. Qualche tocco qua e là vagamente rétro, nessuna bizzarria interpretativa e dunque un Beethoven restituito alla sua correttezza, senza prese di posizione pseudo filologiche o, peggio, anomalie ritmiche, dinamiche, metronomiche e quant’altro. Sicché un ascoltatore (magari giovane) che paradossalmente mai avesse ascoltato la Settima si può dire ne abbia avuto un’idea corretta e convincente, provando verosimilmente la giusta emozione.
Nella prima parte di serata si è ascoltato il sublime Concerto per violino e orchestra op. 77 di Johannes Brahms, solista la russa Alena Baeva che di recente si era esibita a Torino con OSNRai (nel poco noto Concerto di Strauss). Qualcosa sembrava non convincere del tutto in apertura, come se mancasse un poco l’intesa, non sul piano tecnico, bensì stilistico, tra solista ed orchestra. Trevino ha puntato molto, forse fin troppo, sulla dicotomia tra passaggi dolcemente intimisti e momenti virili, come di ballata nordica (e allora il notissimo tratto che pare riecheggiare la beethoveniana Ouverture Egmont). Una estremizzazione che non sembra aver giovato al primo tempo. Non sempre impeccabile la Baeva quanto ad intonazione (certe irruenze l’hanno un poco tradita), ha saputo peraltro cogliere nel complesso l’esprit della superba pagina brahmsiana. E pazienza per qualche asprezza degli archi ed anche alcune vistose défaillances degli ottoni (nella seconda parte della serata pareva di trovarsi di fronte ad un’altra orchestra, dal suono assai più corposo, ma soprattutto ‘centrato’ e convincente).
L’Adagio ha regalato bensì emozioni e, soprattutto, nel Finale la composizione è sembrata prendere finalmente il verso giusto. Ancora corni non immacolati e qualche cosa qua e là di irrisolto, ma alla fine gli applausi sono fioccati copiosi alla solista, al direttore e alla stessa orchestra svedese. Molte le chiamate per la violinista dalla tecnica peraltro agguerrita, che pur tuttavia non ha voluto concedersi più, uscendo da ultimo senza strumento e facendo intendere con chiarezza il suo desiderio (più che comprensibile, del resto, dopo un Concerto sì impegnativo) di non voler suonare oltre. E va bene così: il pubblico dovrebbe comprendere una volta per tutte che i solisti non sono animali da circo e se non gli va di fare un bis non è affatto obbligatorio. Punto.
Non così l’Orchestra che, dopo la Settima, ha invece volentieri indugiato in sala. E allora primo bis orchestrale all’insegna di una gloria locale, ed ecco un pezzo dello svedese Lars-Eric Larsson, insulso e inconcludente (lo Scherzo dalla Pastoral Suite) con una insistente e pur giustificabile figurazione di garruli flauti, eseguito peraltro benissimo. Poi, presi dall’entusiasmo di suonare in una vasta sala come quella del Lingotto, e forse anche dalla fin troppo affettuosa accoglienza del pubblico torinese, ecco che i sinfonisti di Malmö hanno voluto ancora offrire una pagina di Brahms (chiudendo il cerchio rispetto all’esordio): la più celebre delle Danze Ungheresi, (la n. 5) eseguita con eccessi dinamici e agogici davvero risibili, insomma in maniera quasi… circense, come oggigiorno di norma non si fa più. Si è trattato di una sorta di esibita e un po’ puerile captatio benevolentiae e il pubblico – ovviamente – ha risposto con entusiasti e protratti applausi, a dir poco in visibilio. Perplessità della critica e di una parte, a onore del vero, dei più esigenti audiofili. Ma va bene così, anche questo è spettacolo, il rito del concerto live è anche questo, inutile ‘sdegnarsi’, per così poco; la solita fauna composita ed eterogenea, e allora critici snob e pubblico sedicente ‘esperto’ (?), neofiti e giovanissimi per la prima volta in sala, anziani avvezzi a rimpiangere direttori passati a miglior vita e orchestre d’altri tempi (forse migliori solamente nel ricordo affettuoso e nostalgico), qualcuno, poi, in grado di valutare con equilibrio e distacco e molto altro ancora. In fondo è pur sempre di una esecuzione orchestrale di livello che si discettava sulle scale, di fortissimi e di rallentando e non già di fasti canzonettari sanremesi. Ci sarà pur una differenza. Evviva Brahms e Beethoven (e il pubblico che – per fortuna – continua ad affollare le sale e a provare emozioni dinanzi alla grande musica).