di Luca Chierici
A poco più di un anno dalla sua passata presenza nel cartellone della Società dei Concerti, Arcadi Volodos è ritornato a Milano, atteso da un pubblico fedele e sensibile al fascino di un suono e di un modo di porgere la musica decisamente attraenti. C’è sempre in Volodos il rischio insito nella ricerca spasmodica dell’effetto che discende da un controllo assoluto dello specifico pianistico, quasi che la scelta del programma rivesta un peso tutto sommato secondario, che non sottintende una proposta ragionata di comparti musicali tra di loro affini. Difficile infatti cogliere nell’impaginato del concerto dell’altra sera un percorso ragionato che unisca sia gli autori in programma (Liszt e Schumann), sia i motivi per i quali ciò che di questi autori è stato scelto debba essere proposto e ascoltato senza soluzione di continuità, confondendo non poco, tra l’altro, la percezione del programma stesso da parte di un uditorio non esperto.
Di Liszt si sono ascoltati di seguito un Sonetto del Petrarca, la seconda versione de La lugubre gondola, la prima delle due Leggende, quella dedicata a San Francesco d’Assisi, e la Seconda ballata. Si è dunque viaggiato attraverso gli Anni di pellegrinaggio per virare improvvisamente verso la visione livida di una Venezia che assiste impotente alla dipartita del genero del musicista, Richard Wagner, per poi volare verso la religiosità tutta italiana e descrittiva delle Leggende e approdare a un mito del tutto differente (quello di Ero e Leandro) proprio della Ballata. Impossibile quindi trovare un filo conduttore che richiami una logica descrittiva, ma anche andando a considerare le sonorità e i miracoli della tecnica pianistica lisztiana si faticava a percepire una matrice comune alle pagine ora descritte. Si è dunque ascoltata una collezione di magnifiche impressioni evocate dalla fantasia del compositore, esposta attraverso un magistero pianistico assoluto all’interno del quale non è contemplata mai l’occorrenza di umano errore. Da questo punto di vista l’arte evocativa del suono di Volodos assomiglia a quella di un altro pianista carismatico dei nostri giorni, Mikhail Pletnev, che per casuale coincidenza ascolteremo in città tra qualche giorno.
Nella seconda parte della serata, prima dei numerosi bis, Volodos ha proposto un altro elemento che compare da qualche tempo nei suoi recital, le Humoreske op.20 di Schumann. Ma anche in questo caso Volodos ha voluto, senza soluzione di continuità, anticipare il capolavoro schumanniano con due piccole pagine tratte dai Bunte Blätter dello stesso autore, che già è raccolta (come dice il nome) costituita da “foglie colorate” prese da composizioni di anni precedenti, non collegate da specifiche affinità. Ciò significa, però, deturpare implicitamente il valore della raccolta maggiore, negando alle Humoreske la dignità di un’opera compatta e di rango pari ad altri grandi capolavori schumanniani come Kreisleriana o Carnaval. Che poi il pianismo di Volodos riesca a superare qualsiasi tipo di difficoltà – e nelle Humoreske ve ne sono più d’una – con una facilità estrema è altro discorso, ma rimane il dubbio, lo ripetiamo, che l’insieme di scelte elusive di questo artista sia mirato quasi esclusivamente ad esaltare il mezzo più che il fine. E lo si è di nuovo percepito nella riproposta di uno dei bis che in questi anni compare molto spesso nei programmi di Volodos, uno straordinario Minuetto schubertiano del quale il pianista sottolinea platealmente il lato di puro incantamento timbrico, forse spingendosi molto più lontano di quanto lo stesso autore avrebbe potuto immaginare. Successo pieno e incontrastato, dovuto in gran parte alle qualità incantatorie di un pianismo raffinatissimo.