di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Accolto da un mix di applausi e di contestazioni, prevalentemente (ma non solo) per i dettagli dell’allestimento, il Trovatore che è andato in scena alla Scala il 6 Febbraio scorso proveniva da Salisburgo, dove era apparso nel 2014 nel grande Festspielhaus. Dato che lo specifico interesse relativo a una nuova produzione si è spostato progressivamente dall’autore e dal titolo ai cantanti, poi al direttore, infine alla regìa e alle scene (tra un poco si parlerà solamente dei video e degli effetti speciali) ci occuperemo innanzitutto del discutibile intervento del regista Alvis Hermanis, che alla Scala aveva riscosso tempo fa un buon successo almeno nel caso di Soldaten di Zimmermann.
Hermanis, coadiuvato da Gudrun Hartmann e, per le scene, da Uta Gruber-Ballehr, ha pensato di collocare questo Trovatore in un contesto perlomeno bizzarro, ossia all’interno di un grande museo d’arte dove i protagonisti diventano addetti di sala o guide con tanto di pointers che illustrano sequenze di capolavori d’autore a un pubblico (leggi il coro) che pende dalle loro labbra. Dice il regista che la sua ambientazione è «un ponte tra il passato e il presente attraverso la storia dell’arte» e fin qui come dargli torto. E sulla carta il progetto dovrebbe funzionare, essendo Il trovatore un titolo in cui l’evocazione, il racconto si sostituiscono spesso all’azione diretta.
Il contrasto tra il momento di illustrazione dell’attività museale e quello del passaggio a un orario di chiusura durante il quale l’evocazione che proviene dai dipinti dovrebbe mescolarsi con la realtà avrebbe potuto essere esplicitata in maniera più chiara. Ma non sempre le premesse si traducono in un progetto a lieto fine, e il pubblico capisce solamente che l’attenzione viene convogliata verso la pluralità dei dipinti stessi, senza cogliere eventuali richiami più precisi quanto di difficile individuazione. Va a finire che anche i momenti di azione scenica più sviluppata si confondono all’interno del meccanismo narrativo scelto da Hermanis, mescolando ricordo e attualità in un insieme irrisolto all’interno del quale si finiscono per ricordare solamente dei dettagli poco significativi.
Anche evitando il ricorso a scene troppo realistiche di pire infuocate e duelli, si potevano risparmiare molte cadute di gusto: i protagonisti che per cantare si issano sulle panche usate dai visitatori del museo per l’alternanza tra riposo e visione particolareggiata dei dettagli dei dipinti, o i continui cambiamenti d’abito – curati da Eva Dessecker – che alternano l’attualità del museo con l’ambientazione d’epoca, o il perdurare della scelta delle diverse sfumature di rosso che dopo due ore rendono gli spettatori un tantino nervosi come i tori durante una corrida.
Ingoffati in abiti rinascimentali di non particolare bellezza, o ridotti a impiegati di museo con tanto di cartellino di riconoscimento, i protagonisti non fanno gran mostra di sé e paiono oltretutto impediti da questi travestimenti all’esercizio delle loro funzioni. Funzioni che, pur non raggiungendo livelli eccelsi, non hanno deluso il pubblico, anche se il Conte di Luna di Massimo Cavalletti ha impiegato non poco tempo a mettersi in carreggiata, senza peraltro raggiungere esiti ottimali. Contando su un mestiere sicuro, la Urmana è stata più che credibile come Azucena, anzi si è rivelata essere l’unica presenza che ci ricordava i fasti di certe dive del passato, ossia una cantante che sopperisce anche con l’arma dell’interpretazione vocale e scenica alle oramai non più perfette condizioni che il ruolo esigerebbe. La Monastyrska ha dato il meglio di sé come Leonora, con una buona conoscenza dei lati migliori di una tradizione forse insorpassabile ma almeno replicabile per un ruolo che rimane tra i più importanti del teatro verdiano e del melodramma in senso allargato. Meli è tuttora più cantante ferratissimo che personaggio, e anche in questo caso il suo Manrico era più apprezzabile sotto quell’aspetto che non grazie a una sua particolare presenza scenica o a una immedesimazione che il pubblico ama ritrovare ancora grazie al ricordo dei grandi interpreti di un tempo. La parrucca da paggio e il vestiario rosso e ingombrante non lo hanno certo aiutato nel raggiungimento di tali mete.
Nei ruoli minori si è apprezzato l’intervento stentoreo di Gianluca Buratto, Ferrando, e da citare senz’altro sono due tra gli allievi dell’Accademia del Teatro, Caterina Piva e Taras Prysiazhniuk, ossia Ines e Ruiz. Di consueto spessore nonostante la non facile collocazione scenica si è rivelato il coro condotto da Bruno Casoni. Luisotti a partire dalle sue dichiarazioni alla stampa ha già chiarito quale sia la sua posizione nei confronti del capolavoro verdiano, ponendosi dalla parte della tradizione – ripercorsa con buoni risultati – e tentando di coniugare il rispetto dell’edizione critica di David Lawton con una visione passatista che comprendeva il ripristino del famigerato “do” acuto al termine della “pira”, quello in cui in passato si è udito più di un tenore sgolarsi all’inverosimile. Dispiace, davvero, che venti e più anni di salutare cura da parte di Riccardo Muti nel togliere le incrostazioni della cosiddetta tradizione possano in un istante essere distrutti da scelte di questo tipo.