di Luca Chierici foto © Brescia&amisano
Una riapertura all’insegna dell’antologico è stata quella del Teatro alla Scala per il primo degli appuntamenti in questo Luglio milanese che si colloca in una fase ancora immatura per essere identificata come post-Covid in una città provata e tuttora incredula. Nonostante le parole volutamente incoraggianti del Sindaco, che è apparso a fianco nel Sovrintendente per un saluto iniziale, Milano appare come luogo che tenta di rinascere dopo un cataclisma imprevedibile i cui effetti economici si potranno purtroppo vedere compiutamente in autunno. Non solo il mondo della musica è stato decimato, sia ben chiaro, e senza coesione sociale, tranquillità economica, fiducia in un futuro di ripresa, anche le attività artistiche non potranno che avere una connotazione meramente consolatoria.
E consolatorio ma piuttosto oscuro ci è parso il programma composito che ha accolto lunedì sera il pubblico sparso e distanziato in una sala in cui si respirava un palpabile disagio, da “sopravvissuti “ che si ritrovano in una Casa accogliente orba della presenza di molti volti noti.
Si sono chiamate a raccolta tre figure prestigiose e soprattutto disponibili, una delle quali, il baritono Luca Salsi ha dovuto dare all’ultimo momento forfait per problemi di salute ed è stata sostituita dal collega Simone Piazzola, altro beniamino del Teatro e vero mattatore della serata. Una serata che aveva come filo conduttore la presenza di Beatrice Rana, pianista anch’essa sempre generosamente disponibile e portatrice di valori professionali e artistici certo non comuni, e del violoncellista Mischa Maisky, figura notissima nelle nostre sale, dove ha suonato per tantissimi anni anche a fianco di Martha Argerich e di tanti altri artisti.
Il programma annunciato ha subito delle modifiche non da poco: al posto dei lisztiani Tre Sonetti del Petrarca – che non sappiamo se fossero stati previsti nella loro forma originaria per voce e pianoforte o in quella successiva di elementi confluiti nel secondo libro delle Années de pélérinage per pianoforte solo – si è ascoltata la versione pianistica de La Valse, capolavoro orchestrale di Ravel originariamente progettato in seno alla collaborazione tra l’autore e Diaghilev, ma da quest’ultimo rifiutato come colonna sonora di un balletto, fatto questo che portò alla definitiva rottura dei rapporti tra i due. Di solito La valse viene eseguita nella versione per due pianoforti, che rende al meglio la complessa filigrana del pezzo, ma qui Beatrice Rana ha sfoderato tutte le sue doti non comuni per proporre con successo la trascrizione per pianoforte solo, difficile e per certi versi ingrata. E si riaffacciava alla mente l’interpretazione che molti contemporanei avevano avanzato nei confronti della pagina raveliana, benché contraddetti dall’autore stesso: la danza avrebbe infatti avuto un significato tragico di commiato per la fine di tutta una civiltà artistica scomparsa dopo il primo conflitto mondiale. Ravel vedeva semmai in questa composizione una affettuosa caricatura di un ritmo che aveva dominato tutto il secolo precedente, anche se la vox populi in questo caso sembra essere più credibile. Almeno questa era la sensazione proveniente dalla esecuzione di Beatrice Rana, attraverso la quale si coglievano più i contrasti, la faticosa serie di crescendo, la a volte goffa parodia di un ritmo inebriante, molto lontana dai suoi significati originali.
Un certa sensazione di cupezza non veniva smussata dall’esecuzione della Sonata per violoncello e pianoforte di Brahms nella oscura e a volte minacciosa tonalità di mi minore. Maisky si è prodigato nel suo cantabile intenso ma alla fine è il carattere del pezzo, con quello spigoloso finale fugato, che è prevalso al di là della lodevole interpretazione dei due artisti.
Per sostituire il Liszt mancante, Maisky ha provveduto con la proposta di un classico tra i classici, la prima Suite per cello solo di Bach, capolavoro nemmeno commentabile che è stato proposto con tecnica sicura e grande partecipazione. Si è avuto l’impressione, riascoltando il violoncellista lèttone dopo tanti anni, di trovarci di fronte a un interprete che il tempo ha fortificato, togliendo una certa aura di facile espansività che caratterizzava i suoi interventi giovanili. Oggi Maisky ha settantadue anni e lo si era ascoltato alla Scala proprio con la Argerich quasi quarant’anni fa imponendosi come partner altrettanto avventuroso e infuocato della grande pianista argentina. Forse a Beatrice Rana avrebbe potuto essere riservato un intervento altrettanto poderoso, non le mancavano certo argomenti validissimi di repertorio. Sta di fatto che la serata ha preso un indirizzo totalmente diverso nel prosieguo, sia perché Piazzola è baritono amatissimo dal pubblico, sia perché ci troviamo di fronte a un artista a tutto tondo sia dal punto di vista strettamente tecnico che da quello interpretativo, sia infine perché ancora una volta si è dimostrato come il Teatro alla Scala è fatto per le voci e in particolare per il repertorio operistico. L’introduzione al canto straziato del Marchese di Posa nel suo addio a Don Carlo è risuonata ancora una volta commovente e in linea con la serata che aveva contorni luttuosi, il “nemico della patria” dallo Chénier ci ricordava uno dei luoghi più tenebrosi del melodramma e lo stesso «Cortigiani, vil razza dannata» risuonava nuovamente minaccioso e terribile, anche grazie all’inedita partecipazione di Maisky che rafforzava le figurazioni dense di note dell’accompagnamento. Un bis (il «Di Provenza» dalla Traviata) ha smussato i contorni verso un contenuto più lirico e ha suggellato l’esibizione di Piazzola con una lunga serie di applausi che ci faceva ricordare i momenti più gioiosi e passionali del nostro Teatro. A compimento della serata, più lunga del previsto, vi è stato il doveroso ricordo nei confronti di Ennio Morricone, sempre con Beatrice Rana nel suo ruolo di accompagnamento a fianco di Maisky, interpreti di un famoso motivo tratto da Nuovo Cinema Paradiso.