di Luca Chierici
Una Scala strapiena come non la si vedeva da quel dì. Pubblico eterogeneo, molti orientali ma anche spettatori nostrani attirati dal nome di Lang Lang, artista che garantisce il tutto esaurito qualsiasi cosa suoni e che in questo caso ingolosiva anche qualche habituée, se non altro per il programma in gioco.
Che sarebbe già stato sufficiente se si fosse limitato alle Variazioni Goldberg di Bach, eseguite da Lang con tutti i ritornelli e quindi utile per coprire un’intera serata. Lang ha invece preferito anticipare il piatto forte con una ouverture schumanniana, l’Arabeske op. 18 (peccato mortale quelle acciaccature reinventate come appoggiature!) e ha poi risposto alle ovazioni finali del pubblico con altri due bis. La cronaca ha registrato infatti un consenso di pubblico straordinario, cosa che del resto accade sempre, qui come all’estero, da parte di un uditorio più avvezzo agli aspetti musicali esteriori che a una conoscenza approfondita dei testi eseguiti, della storia dell’interpretazione e via di seguito.
Le Goldberg di Bach-Lang (o di Lang-Bach come si preferisce) erano note al pubblico più professionale perché erano già uscite in cd, filmate e opportunamente passate al setaccio dalla critica diciamo così più esigente, che non era stata molto tenera. Valeva però la pena seguire una esecuzione dal vivo per rendersi conto ancora una volta di come Lang sfoderi una meccanica digitale straordinaria, che chiunque invidierebbe, sebbene non usi tanto la stessa meccanica per fini di approfondimento dei testi da lui eseguiti, quanto per esibire una facilità enorme alla tastiera quasi sempre allo scopo di stupire il pubblico, o almeno quella parte di pubblico che vuole essere stupito e che cerca emozioni forti.
Non si possono certo togliere a Lang i meriti che derivano da questa destrezza digitale notevolissima, da una memoria a prova di bomba, da una tenuta concertistica perfetta. E sono anche in parte sparite le esagerazioni espressive di un volto che sembra vivere momenti di estasi spesso a sproposito e quasi apposta al fine di incantare il pubblico, almeno quella parte di pubblico che vuole farsi incantare. Ma sarebbe ingiusto liquidare la parte bachiana della serata senza entrare più nel dettaglio, perché all’interno del Bach-Lang c’era pur sempre un’idea unitaria che ha permesso al pianista di sostenere a modo suo il discorso per ben novanta minuti di fila (ricordo che la durata della Variazioni Goldberg eseguite con i ritornelli in genere varia tra i settantacinque e i novanta minuti).
«All’interno del Bach-Lang c’era pur sempre un’idea unitaria che ha permesso al pianista di sostenere a modo suo il discorso per ben novanta minuti di fila»
Nella esecuzione discografica, Lang indugiava già visibilmente con le sue abituali irregolarità di metronomo fin dal tema iniziale. Qui le cose sono andate un poco meglio e le variazioni di tactus successive hanno tutto sommato seguito la tradizione, con rallentamenti evidenti nelle variazioni “meditative” seguiti da degli exploit di velocità ai limiti della follia in quelle dove la tecnica digitale diventa impervia, ancora più impervia se si pensa che il testo originale è pensato per un clavicembalo a due tastiere, cosa che permette una più agevole distribuzione delle mani. Lang ha però, come spesso accade, esagerato nel reinventare la scrittura originale in un qualcosa che sarebbe difficile definire, se non ricorrendo all’immagine di un giovane pianista dotatissimo che si mette a leggere per la prima volta gran parte della letteratura lasciandosi travolgere dalla bellezza della musica, dalla scrittura virtuosistica, dai lati cantabili più esteriori senza fare caso alla precisione del testo stesso e alle sue valenze costruttive e narrative. Si è passati quindi dalla meraviglia per lo sgranare velocissimo delle note al disgusto per certi effetti iperespressivi, ovviamente non scritti (la cosiddetta “over-interpretation”) paragonabili a una atmosfera da piano-bar, dall’ammirazione per l’intimità di certi momenti cantabili allo sdegno, culminato nella variazione ventinove, per certi abbellimenti portati all’estremo, con trilli prolungati, raddoppi e altri artifici del genere. Meno male che il vecchio Johann Sebastian aveva pensato di spargere qua e là qualche variazione in “stile severo-imitativo” (soprattutto le numero dieci, diciotto e ventidue) che metterebbero il freno al cavallo più imbizzarrito.
L’impressione generale, comunque, sarebbe stata relativamente positiva, perché è fuori dubbio che Lang riesca bene o male a polarizzare l’attenzione – da anni non si sentiva un silenzio tombale in teatro, anche nei momenti più meditativi e lenti – e a indurre il pubblico a pensare ai contenuti di ciò che viene proposto. Ed è sicuramente meglio questa seconda ipotesi piuttosto che la noia che ci assale spesso durante certe serate in cui l’interprete non riesce proprio a comunicare alcunché all’uditorio. Certo, volendo eseguire delle Goldberg rivisitate secondo il gusto tardo-ottocentesco si poteva attingere, come hanno fatto recentemente diversi colleghi, alla revisione busoniana del testo originale. Ma da oggi, oltre al Bach-Busoni o al Bach-D’Albert, abbiamo appunto anche il Bach-Lang.
L’atteggiamento da censurare, semmai, è stato quello di prolungare un discorso che – per legge! – avrebbe dovuto concludersi con l’ultima nota del tema dell’aria, ripetuto al termine delle variazioni. Qui Lang Lang si è prodotto nel peggio di sé, con uno dei suoi bis preferiti (Jasmine Flower) e con un Per Elisa strappalacrime che vorremmo dimenticare per sempre.