Grigori Sokolov è oggi considerato essere uno dei maggiori pianisti del nostro tempo, e non solamente tra quelli della sua generazione, che si colloca cronologicamente in una fase successiva a quella del ’40 (Pollini, Argerich, Ashkenazy).
Ne abbiamo scritto più volte su queste colonne e abbiamo seguito una certa evoluzione (o involuzione ?) artistica di Sokolov, che lo ha portato a transitare dal repertorio sei-settecentesco dei Couperin, Rameau e prima ancora dei Byrd e Froberger, a quello romantico e raramente “moderno”. Raggiungimenti di altissimo livello, soprattutto dal punto di vista strettamente tastieristico, con una solidità di tecnica che regge ancora adesso, dopo tanti anni dal debutto, e una certa visione del repertorio che però a volte abbiamo notato sconfinare in una sorta di autocompiacimento, come se la tecnica digitale stessa prendesse il sopravvento sui significati più propriamente musicali. Sokolov ha anche affrontato, una decina di anni fa, periodi di crisi esistenziale che certamente segnano il percorso di un artista. Crisi che si è fatta sentire in relazione ai caratteri della propria sensibilità. Oggi il pianista russo è sempre più idolatrato dal grande pubblico, se ne è avuto prova certamente l’altra sera, nel corso del suo recital per la Società dei Concerti di Milano che in un certo senso detiene da sempre i “diritti” relativi alla sua presenza in città. E il pubblico gli tributa vere e proprie ovazioni molto spesso a prescindere da considerazioni relative alle sue mutevoli differenze di approccio che sono, come dicevamo, più che evidenti per chi segue il pianista fin dagli esordi.
Se si parte da considerazioni apparentemente “ragionieristiche”, ossia legate alla durata dei pezzi da lui eseguiti , ci si trova di fronte a verità incontrovertibili che non sempre riescono a essere spiegate in termini puramente artistici. Prendiamo ad esempio Kreisleriana di Schumann: la sua esecuzione milanese del 1994 era molto avvincente anche a causa di una certa foga più che giustificabile per un testo che alterna momenti di grande riflessione a quelli dove regna sovrano l’impeto, la bruciante verità del racconto. Trentatré minuti durava Kreisleriana quasi trent’anni fa; quaranta minuti – uno scarto enorme – era la durata dell’esecuzione odierna. In questo caso, tuttavia, il discorso era retto da un eloquio tuttora affascinante anche se, a tratti e nei momenti di minore concitazione, l’insieme tendeva a una sorta di sfaldamento narrativo. I tempi degli Intermezzi op.117 di Brahms subivano ancora un certo scarto di durata (dai 17 minuti del Sokolov viennese del 1993 ai venti di oggi) e ciò si notava particolarmente nella resa dell’ultimo numero della serie, che appariva un poco troppo meditato rispetto all’indicazione di “Andante con moto”. Sul terzo elemento del programma (in realtà il primo in ordine di esecuzione, ossia le cosiddette” Variazioni-Eroica” di Beethoven ) i conti però non tornavano e non tanto per le durate in sé quanto a causa di una evidente scelta programmatica sulla quale mi permetto di discordare. Su una ventina di pianisti da me ascoltati in disco o dal vivo – alcuni in occasioni multiple – in queste meravigliose variazioni beethoveniane, diciannove mantengono una durata media che va dai 22 ai 25 minuti. Si va dal giovane Gulda che fulmina tutti quanti per velocità, brio, controllo assoluto del mezzo, con 21’30”, ai 24 minuti di Kissin e, casi estremi, ai 25’30” di Emmanuel Ax e ai 26’ di un meditatissimo, anziano Claudio Arrau. La lettura di Sokolov dell’altra sera ha sfiorato i 30 minuti, un divario in percentuale anch’esso notevole. Ma il problema non risiedeva tanto nella durata complessiva del lavoro quanto nella scelta operata da Sokolov di rispettare in maniera maniacale il tactus iniziale del tema. Ora, a parte ogni considerazione relativa al carattere del tema stesso, che è uno dei luoghi più interessanti di tutta l’inventiva dell’autore, utilizzato tra l’altro nelle “Creature di Prometeo” e nell’irresistibile finale della terza sinfonia, il già lento incedere del tema nella visione di Sokolov veniva applicato tale e quale anche in quei numerosi momenti dell’opera 35 in cui il discorso procede per accumulazioni espressive, in un continuo crescendo di emozioni. Ciò avviene fino almeno alla variazione ottava, dove ci si può permettere un rallentando, anche se non scritto esplicitamente, per proseguire nelle variazioni 9-13 seguite da un ineffabile pausa che coincide con il passaggio al “minore” della variazione quattordicesima e al “Largo” della quindicesima che culmina nel meraviglioso “Finale alla Fuga” (Allegro con brio !). La stessa parte riepilogativa è un “Andante con moto” che nelle dita di Sokolov risultava come appiattito.
Quello che a mio parere risultava essere una scelta arbitraria da parte del pianista era appunto l’uniformità di tactus, che nel genere della “Variazione”, dalle Goldberg in poi, non è assolutamente prevista nell’arco di un approccio interpretativo. La Variazione è di per se un momento, nella letteratura classica, che automaticamente prevede un continuo cambiamento espressivo da parte del compositore. A tale cambiamento continuo di umore si deve uniformare l’esecutore-interprete, a meno di non intraprendere una sorta di sperimentazione che risulta fine a se stessa.
Al momento dei bis i rapporti si sono per fortuna riequilibrati, con esecuzioni molto belle e “in linea” dei Preludi op.23 nn.9 e 10 di Rachmaninov, un Preludio dall’op.11 di Skriabin, la Ballata in sol dall’op.118 di Brahms, un Preludio (quello in do minore, da sempre eseguito da Sokolov con particolare veemenza di accordi iniziali) e una Mazurka di Chopin. Il Preludio op.23 n.9 – forse la cosa più mirabile del recital – tra l’altro giocava in maniera molto raffinata all’interno delle scelte tonali del programma, sconfinando in un “mi bemolle minore” che contrastava con il “mi bemolle maggiore” del Beethoven e del primo numero del Brahms.