di Luca Chierici
La valutazione di un fenomeno pianistico vivente come è quello di Kissin inizia ad assumere dei connotati di complessità che erano del resto prevedibili grazie alla rapidità con la quale la sua arte si era sviluppata sin dai primi anni della carriera.
Carriera che da noi era stata immediatamente sfruttata grazie alle capacità di Antonio Mormone nel cogliere al volo ciò che di meglio si offriva su un mercato internazionale già a quei tempi assai competitivo.
Tornato in Sala Verdi per la ricorrenza della scomparsa del suo mentore italiano, Kissin ha sorpreso gran parte del pubblico – soprattutto coloro che lo conoscevano fin dall’inizio – per essersi presentato con un programma e soprattutto attraverso delle caratteristiche stilistiche inattese. Si era detto anni fa che Kissin stava dimostrando in tutto e per tutto di essere il vero erede della mitica stagione novecentesca del pianismo russo, quello dei Richter e dei Gilels, un pianismo che univa una visione strumentale molto brillante e testimone di sonorità intense a una lettura comunque profonda (il che non vuol dire per forza astrattamente meditata) e colma di significati del repertorio. Eppure fino a una quindicina di anni fa prevaleva in Kissin l’attenzione verso la letteratura più virtuosistica, un interesse comunque non risolto in termini di puro smalto esteriore, e le sue piuttosto rare proposte dei classici viennesi non lasciavano ancora trasparire approfondimenti degni di nota. Più o meno dalla metà degli anni Ottanta Kissin veniva additato anche dalla critica più prestigiosa come esempio assoluto di elemento che dimostrava come il percorso individuale di un artista giovanissimo, investito da un dono naturale di eccezione, riprendesse i termini dell’intera evoluzione dell’interpretazione pianistica degli ultimi duecento anni: “ontogeny recapitulates phylogeny”, come ebbe a scrivere Harold Schonberg, riferendosi anche al caso del giovane pianista russo.
Ma se nel periodo che va dal 1985 al 2004 all’incirca, il Beethoven di Kissin si riduceva al “Rondò sul soldino perduto”, le Variazioni in do minore, la Sonata “al chiaro di luna”, una Contraddanza e una Scozzese, se successivamente vi fu l’exploit dei Concerti per pianoforte e orchestra con il ciclo beethoveniano completo presentato a Parigi sotto la bacchetta di Kurt Masur (ciclo inciso poi con Colin Davis) Il rapporto tra Kissin e le sonate di Beethoven subì una svolta solamente in tempi successivi, con la proposta successiva di capolavori come le sonate op.111, 57, 81, 106.
La Sonata op. 90 che si è ascoltata l’altra sera in apertura di programma offriva però ulteriori motivi di meditazione, perché non avevamo mai ascoltato l’oramai cinquantenne virtuoso affrontare quel contesto beethoveniano con tale bellezza di suono e soprattutto con tale affabilità discorsiva. E se il successivo Chopin, con il Notturno op. 48 n. 2 e la Fantasia op. 49 ci riavvicinavano al Kissin più conosciuto, arricchito anche in questo caso da una perfetta fusione tra la qualità del suono e quella del fraseggio, altre sorprese ci attendevano, forse dove meno ce le saremmo aspettate. Kissin erede di Richter e Gilels? Si, ma non certo nella seconda sonata di Prokofiev che veniva cesellata con una attenzione melodica così lontana da certe modalità tradizionali che vogliono imporre un Prokof’ev duro e spigoloso. E ancora una sorpresa ci era riservata attraverso le quattro Ballate op.10 di Brahms: qui era evidente l’omaggio a Michelangeli, anche se è ancora troppo presto (!) pretendere dal pur magnifico pianista quella indimenticabile e perfetta sequenza di tempi e di dilatazioni espressive che solamente il grandissimo Arturo fu capace di individuare nel contesto discorsivo di questo straordinario capolavoro. Grandissimo successo in una sala finalmente piena, come ai bei tempi.