di Luca Chierici
Con la messa in scena di Medée di Cherubini per la prima volta in lingua originale alla Scala si è ripetuto in un certo senso l’evento che aveva separato dai nostri giorni un altro titolo che era stato un tempo portato al successo incredibile da un personaggio come la Callas.
C’erano voluti anni e anni perché Traviata riuscisse a recuperare la fiducia del pubblico scaligero dopo i mitici anni ’50 della Divina ed ecco che oggi ricompare una Medea di Cherubini in originale dopo che solamente un miracolo sembrava potesse resuscitare una serie di recite che avevano tenuto campo tra il 1953 e il 1962, con la partecipazione, oltre che della Callas, anche di direttori del rango di Bernstein e Schippers. Si era trattato però in quel caso – ne riparleremo tra breve – della creazione di uno stile interpretativo quasi del tutto inedito che portava il pubblico a concentrare l’attenzione non tanto sull’elemento sinfonico-corale quanto sulla bravura ed eccezionalità della protagonista. Da questo punto di vista l’operazione odierna era quasi dovuta, anche se avrà fatto storcere il naso agli adoratori della Medea di settant’anni fa.
Oggi è cambiato tutto o quasi. La struttura di Medée letta come opera post settecentesca e pre-romantica ricreata piuttosto arbitrariamente nella nostra lingua con lunghi dialoghi si è trasformata in un mix tra l’epopea e la contemporaneità, la figura della protagonista si è quasi tramutata da feroce e sanguinaria in soggetto che ricompone a modo suo una realtà che le voleva portare via figli e marito. Il prezzo è quello della morte, lo sappiamo, e la prospettiva diventa quella dei figli innocenti che inconsciamente perdonano la madre per questa sottrazione totale dalla vita. I figli che giocano nella loro stanza (filmata nella milanesissima Villa Necchi, che assume il significato del palazzo di Crèon a Corinto nelle asciutte scene di Paolo Fantin) agiscono come se fossero del tutto al di fuori dei tragici eventi della famiglia. I bimbi parlano attraverso voci registrate che hanno solamente una funzione di narrazione della storia del Vello d’oro e che risuonano cupe e minacciose come ad anticipare lo svolgersi della tragedia. Le voci sono come concentrate dai dialoghi originali della vecchia stesura dell’opera, ridotte da Mattia Palma su suggerimento del regista Damiano Michieletto facendo parlare i due giovani come protagonisti dello svolgersi della macabra vicenda.
Il Palazzo di Créon ci riporta a un ambiente ricco borghese che nulla ha a che fare con l’originale e che viene alla fine disastrato con il carbone che tutto soffoca e che tutto brucia. I personaggi vestono costumi alternativi (soprattutto quello fuori dalle righe di Jason), mille particolari fin troppo minuziosi commentano lo svolgersi della cupa vicenda (che andrebbe vista almeno un paio di volte almeno per chi ha dovuto subire uno spiacevole incidente tecnico che ha impedito di seguire il testo francese attraverso le consuete proiezioni che si collocano dinanzi al seggio dello spettatore – errore di non poco conto che costringe l’ascoltatore a riascoltare l’opera nella registrazione radiofonica dinanzi al libretto.)
Michele Gamba dirige all’inizio più come un commentatore che un protagonista ma tiene in pugno la complicata realizzazione musicale di Cherubini che funziona benissimo anche in questa nuova rilettura della tragedia. Marina Rebeka si immedesima in Medée a tal punto da meritarsi la più alta percentuale di successo della serata. La sua prova canora affronta tutte le miriadi di difficoltà del testo con una scioltezza e bravura impressionanti. Molto meno convincente Stanislas de Barbeyrac, Jason che in questa versione sembra non capire lucidamente lo svolgersi dei fatti, convinto fino all’ultimo delle proprie ragioni che lo portano alle nozze con Glauce (Dircé), altrettanto ignara delle sofferenze di Medée e dei figli. Dircé (Martina Rusomanno) è la bravissima figlia di Creonte, che strappa gli applausi così come la schiava Néris (Ambroisine Bré) che pecca però di voce esile. Poco convincente è il Créon di Nauhel Di Pierro, che anche dal punto di vista costumistico appare piuttosto fuori luogo. Il coro in questa Medée conserva tutta la sua importanza ed è magistralmente condotto da Alberto Malazzi. La partitura cherubiniana assume importanza e raggiunge fasti sempre maggiori verso il finale, e lì Gamba giustamente accelera il passo portando il finale dell’opera a un imponente e trascinante conclusione. La partitura cherubiniana è comunque assai complessa e la passata preromanticizzazione degli anni ’50 era piuttosto perdonabile perché difficile era stato il compito affrontato da Bernstein e Schippers nel collegare tra loro elementi che provengono da fasi in completa evoluzione (da Haydn, Mozart, Beethoven fino a Berlioz). Gamba ha quindi fatto del proprio meglio quasi per inventare uno stile particolare che non trova riscontro neanche in altre partiture dell’Autore.