di Luca Chierici
È compito difficile riprendere oggi in mano il Macbeth in una Scala che, seppur tardivamente rispetto al corso storico di quest’opera davvero intrigante per i suoi contenuti ai confini estremi del Romantico, ha visto negli ultimi settant’anni la successione di allestimenti rimasti famosi, uno su tutti quello di Abbado che ha tenuto banco dal 1975 al 1985.
Forse il titolo più singolare di Verdi, Macbeth si differenzia per quella tinta di soprannaturale che potrebbe ricordare in alcuni punti l’esempio precedente del Freischütz di Weber, con l’aggiunta dell’elemento di pura malvagità incarnato dalla figura della Lady, che davvero muove i fili della tragedia tanto da far sembrare lo stesso Macbetto solamente una mano assassina, il prolungamento della mente malata della moglie. È ben noto che questo titolo verdiano condizioni in maniera fino ad allora mai udita l’emissione vocale dei protagonisti tanto da sfociare in un vero e proprio “caso” descrivibile anche attraverso la corrispondenza vergata dallo stesso Verdi. Se “la mancanza di duetti amorosi” nel senso della tradizione di certo melodramma dell’epoca fu un elemento che sconvolse certamente il pubblico delle prime esecuzioni, va ribadito che parte del pubblico stesso e della critica si accorsero di avere assistito in ogni caso a qualcosa di davvero inconsueto e foriero di sviluppi futuri allora imprevedibili.
La messa a punto di un Macbeth davvero definitivo non ha praticamente avuto mai luogo. Anche in questo caso Chailly ha pensato di inserire nel quarto atto uno scampolo della prima stesura (la morte del protagonista – «Mal per me che m’affidai») che nella versione originale costituiva il compimento dell’opera. Inserimento già proposto ai tempi di Claudio Abbado alla Scala e da Chailly stesso a Salisburgo. La recente edizione critica di David Lawton fondata sulla collaudatissima seconda versione del 1865, nata in lingua francese, riporta molte lievi differenze rispetto alla precedente edizione a stampa. Di queste varianti, della sua esperienza come interprete di Macbeth in molte occasioni passate, della sua presenza come assistente di Abbado nell’allestimento di 45 anni fa, Chailly si è servito, con la sua consueta curiosità indagatrice, per raggiungere gli esiti di una lettura di ampio afflato tragico, in questo seguìto a meraviglia dai protagonisti vocali, dal coro e dall’orchestra tutta. Semmai la lettura di Chailly è risultata fin troppo analitica, preziosa nei dettagli, a scapito di una conduzione più scorrevole e compatta, come si ricorda essere stata quella di Abbado. Ma il punto di attrito in questa produzione verdiana è risultato essere la non compiuta identità di vedute tra il direttore e il regista Davide Livermore, e su questo argomento torneremo tra poco. Questi i presupposti della nuova operazione, mentre secondario tutto sommato appare l’inserimento di Macbeth come elemento terminale di una trilogia giovanile (i primi due titoli essendo stati Giovanna d’Arco e Attila) di recente (2015, 2018) presentata alla Scala con un cast simile a quello del Macbeth di ieri sera. Cast che ricordava per ricchezza e varietà di componenti quelli delle passate stagioni, che avevano visto in scena elementi quali la Callas, la Gencer, Nilsson, Verrett, Cappuccilli, Ghiaurov.
Non era per niente facile per Anna Netrebko confrontarsi con le Lady del passato, ma a parte questa osservazione la sua definizione del ruolo non ha convinto del tutto il pubblico. La sua Lady vendicativa, malvagia ha avuto una definizione scenica pressoché perfetta. Dove la Netrebko non ha convinto appieno è stato a causa di alcuni lievi problemi di intonazione nella regione acuta e nel dominio di un registro grave che non le è evidentemente (oggi) del tutto consono, vuoi per problemi di stanchezza, vuoi per una esposizione mediatica fin troppo caricata che poi risulta sfociare alla prova dei fatti in una performance meno efficace del previsto. Diciamo pure che un suo atteggiamento quasi di sfida nei confronti di quella parte di pubblico del loggione che si è permesso di sottolineare le proprie disapprovazioni non ha certo migliorato il clima sul palcoscenico. Si è quasi avuta l’impressione, in altre parole, che il soprano fosse fin troppo confidente nella propria bravura e nella capacità di avere risolto a priori e con facilità tutti i problemi che questo ruolo richiede all’interprete.
Se la performance della Netrebko ha scatenato qualche malumore, non così si può dire nel caso di quelle dei quattro protagonisti maschili. Per esperienza, autorevolezza, bellezza di timbro e potenza di emissione Ildar Abdrazakov è stato innanzitutto un Banco ideale, cantante che ha preso in mano fin dall’inizio la propria parte con una confidenza infallibile nelle proprie risorse. I suoi interventi sono stati premiati dall’applauso caloroso del pubblico, conscio di trovarsi di fronte a un artista che vanta un primato di eccellenza nella sua carriera scaligera oramai da molti anni a questa parte. Del tutto positiva è stata la tenuta di Luca Salsi attraverso la cura di un ruolo ben più esteso nel tempo e di carattere assai più sfaccettato. Salsi non ha tratteggiato la figura di un Macbeth completamente succube dei voleri della Lady, bensì un personaggio che prende in mano un progetto di scalata al potere quasi autonomamente, salvo ripiegarsi in se stesso con l’evolversi dei fatti. A lui il pubblico ha tributato lunghi applausi al termine dei momenti suoi più intensi, culminanti in quel «Pietà, rispetto, amore» che ha scatenato l’entusiasmo dei presenti, proiettando la sua prestazione nell’olimpo dei Macbeth che hanno fatto storia.
Francesco Meli ha dal canto suo offerto un’ottima prestazione nei confronti di una carattere certamente meno complesso ma pur sempre tutt’altro che scontato: lo si è capito fin dalla sua prima apparizione in quel grido di «Orrore!» che commenta la scoperta dell’avvenuto assassinio di Duncano fino a giungere all’accorato appello di “Ah, la paterna mano” nell’atto quarto. Ivan Ayón Rivas è stato infine uno squillante Malcolm che ha dato il suo contributo non secondario nel finale. Il coro preparato da Bruno Casoni e guidato dal nuovo leader Alberto Malazzi è stato un altro grande protagonista di quest’opera difficilissima che richiede appunto un intervento del tutto speciale da parte della compagine che dà voce alle streghe, ai sicari guidati da Macbeth, al popolo che insorge nel celebre lamento di “Patria oppressa”. Al coro sono stati rivolti ripetuti applausi al termine della recita, anche sollecitati da Chailly, Livermore e i protagonisti vocali.
La drammaturgìa di questo capolavoro di Shakespeare-Verdi con le sue componenti fantastiche, oniriche, si presta a numerose letture e non c’è da stupirsi che un regista come Livermore, coadiuvato dalla sua ricca compagnia di scenografi, costumisti, addetti alle luci e ai video, sia stato molto attento a quanto la tecnologia poteva essere di grande aiuto per intervenire efficacemente su un soggetto davvero fuori dall’ordinario. Livermore ha voluto fare riferimento a un’idea cinematografica tra le più interessanti di questi anni e ha proiettato la vicenda in un contesto che si rifà in parte ai diabolici congegni che muovono Inception di Cristopher Nolan. Ma se l’idea di base – ancora una volta fin troppo preannunciata da conferenze stampa, teasers, videoclip parziali – poteva rivestire un significato in linea con certi aspetti della tragedia scespiriana, la realizzazione della stessa ha fatto uso, anche attraverso giganteschi “ledwall”, di soluzioni già viste nei precedenti spettacoli curati da Livermore, il gruppo Giò Forma e quello di D-Wok per i video. Si è trattato purtroppo di una ripetizione di elementi già visti nel recente passato (a partire dalla presenza di una automobile in scena, nel primo atto, che non sconvolge più nessuno), sia della realizzazione molto meno impressionante di quanto ci si potesse attendere per ciò che riguarda la visualizzazione di un contesto metropolitano imponente quanto soffocante, realizzato unicamente tramite dei video che proiettavano una sorta di visione caleidoscopica di paesaggio urbano ingolfato di grattacieli. Non solo, nel momento finale della battaglia si è fatto un uso prevaricante di effetti speciali che simulavano bombardamenti, incendi e quant’altro, calcando un po’ troppo l’acceleratore sull’effetto fine a se stesso. Altri elementi unificanti le scene sono apparsi ripetitivi: le immagini di foreste di alberi incombenti, la presenza di un ascensore d’epoca che veniva utilizzato a volte in maniera incomprensibile per l’apparizione e la scomparsa dei protagonisti. Il complesso della scenografia si riferiva però anche a soluzioni indubbiamente belle e fin troppo eleganti visto l’aspetto truculento degli avvenimenti che avevano luogo tra divani, tavoli e altri complementi d’arredo in stile anni Trenta. Belli i richiami all’architettura di Piero Portaluppi, geniale architetto milanese, e ai suoi progetti avveniristici. Tutto contribuiva a rendere però fin troppo elaborata la scenografia, con una tendenza all’horror vacui e soprattutto una scarsa attinenza con gli elementi che si proiettavano sullo sfondo, nella visione inarrestabile dei claustrofobici panorami urbani. A complicare ancora di più la situazione era la presenza anch’essa incessante di stuoli di mimi e danzatori che si sono poi spesi nella realizzazione della coreografia aggiunta in vista della prima del 1865, qui curata da Daniel Ezralow.
Una tale messe di componenti visivi non era davvero in linea con una lettura piuttosto intimista di Chailly e i conti non sono tornati al termine della rappresentazione, con numerosi segni di disapprovazione che hanno avuto come bersaglio Livermore e la numerosa cerchia di collaboratori. E tutto sommato non si è capito come mai Chailly, protagonista così coerente nelle proprie scelte, sia stato al termine assente nel contesto delle uscite singole di tutti i componenti di questo complesso allestimento.