di Francesco Lora
Il nuovo allestimento di Adriana Lecouvreur al Teatro Comunale di Bologna era saltato, nel maggio 2020, per emergenza sanitaria; nel marzo scorso è poi stato ripensato e trasmesso dalla Rai, in una trasposizione cinematografica inclinata, per natura, a concentrarsi sulla preziosità di dettagli minuti, e intenta, per missione, a esplorare gli spazi del teatro (a partire dalla sala spettralmente deserta).
L’idea drammaturgica sul capolavoro di Francesco Cilea è rimasta la stessa, ma la sua declinazione per telecamere e microfoni è cosa diversa, beninteso, dal lavoro destinato all’hic et nunc dello spettacolo dal vivo. Quel lavoro si è infine potuto apprezzare in quattro recite dal 14 al 20 novembre, con una locandina musicale perlopiù rimasta immutata rispetto a quella originale. Anche da essa traggono valore la regìa di Rosetta Cucchi, le scene di Tiziano Santi e i costumi di Claudia Pernigotti; si ha anzi riconferma di una tra le più nitide, accurate e lancinanti letture teatrali firmate dalla Cucchi, più a suo agio nei drammi, nelle forme e nei temi romantici e contemporanei che in quelli barocchi e classici.
Questa l’idea, da lei stessa esposta nel programma di sala: «I quattro atti dell’opera diventano quattro spaccati di epoche diverse, di muse che hanno ispirato il proprio tempo, e forse che hanno camminato tutte sulle assi di uno stesso palcoscenico infinito. È lei, la vera Adriana Lecouvreur, che ci racconta il primo capitolo della storia, in un affollato retropalco della prima metà del Settecento dove la macchina teatrale gioca con artifici e candele. Nel secondo atto saltiamo all’Ottocento ed ecco che la storia si colora di toni più romantici; lei idealmente è una Sarah Bernhardt, una delle attrici che più ha interpretato il ruolo di Adriana nella tragedia di Legouvé e Scribe. Nel terzo atto approdiamo agli anni Venti del secolo scorso dove il cinema entra prepotente nella società del tempo e i sentimenti sono filtrati da una macchina da presa; tante sono le muse ispiratrici di quel periodo da Yvonne Printemps, protagonista di uno dei primi film muti ispirati alla Lecouvreur, per arrivare a Greta Garbo o a Loïe Fuller capace di creazioni dipinte con la danza nello spazio della scena teatrale. Infine nell’ultimo capitolo arriviamo agli anni Settanta di una Parigi dominata dalla Nouvelle Vague, una sorta di diario intimo di una generazione nuova ma inquieta dove la nostra protagonista, che potrebbe ispirarsi a Anna Karina o a Catherine Deneuve, si confronta con se stessa e con l’immagine che il mondo ha di lei come in un film di Jean-Luc Godard e in questo spazio vuoto trova finalmente la sua vera essenza». Dalle parole ai fatti, si ha il compiuto esito di un’idea drammaturgica in costante e coerente progresso, da una consapevole e coordinata oleografia di partenza a un atto IV dov’è attuata la più verosimile, straziante e concreta delle vie rappresentative: la protagonista che muore da sola, sentendo la voce dell’amato Maurizio non altrimenti che nella propria testa e in preda all’ultimo delirio; invano Michonnet le porge, come una medicina, i copioni teatrali già distrattamente calpestati, nell’atto I, da quel principe di Sassonia occupato con più di una donna, destinato a un futuro non di teatro, mai tornato alla musa abbandonata.
Il lavoro della Cucchi trova sponda nella direzione musicale di Asher Fisch. Adriana Lecouvreur è partitura ricca di reminiscenze settecentesche, aggraziate e leziose e trasparenti, lungo le quali la bacchetta è chiamata a muoversi con la leggerezza di un piumino: ciò che con luminosa astrazione – quasi avulsione narrativa – ha fatto Daniel Harding all’ultimo Maggio Musicale Fiorentino. Fisch prende una strada opposta e sfoga dunque sonorità generose, fraseggi rapinosi, contrasti energici, insomma il trascinante passo drammatico, ovunque implicito, anziché un certo colore locale della composizione. L’Orchestra e il Coro del Teatro Comunale, motivati come non mai, gli rispondono con una prestanza tecnica che entusiasma.
La compagnia di canto è capitanata da Kristīne Opolais, soprano di fama più internazionale che specificamente italiana, la quale, in quell’assieme, è tuttavia anche l’unica non madrelingua. Si presenta al meglio delle proprie facoltà, con timbro più luminoso, estensione più sicura, emissione più libera e modulazione più duttile del consueto: procura quindi importanti mezzi canori alla parte protagonistica, ma scopre il tallone nella prosodia tutta giocata in difesa, incerta, non padrona dei versi raciniani da declamare nel finale dell’atto III. Chi invece fa scintille con la parola, sensuale o insinuante o rabbiosa, è Veronica Simeoni, una Principessa di Bouillon finalmente sottratta alla gratuita esibizione di proterva ubertosità mediosopranile e restituita, invece, a una linea di canto e a un acume retorico di sovrana sottigliezza e intelligenza. Anche Luciano Ganci, come Maurizio, è tanto tenorilmente espansivo quanto accorto nel differenziare, col porgere, le situazioni passionali, imbarazzanti o spaccone di un personaggio illusorio e superficiale. Suo contrappeso drammatico, di eguale efficacia interpretativa, è il baritono Sergio Vitale: una voce di grana grossa che calza però come un guanto, su Michonnet, grazie all’amorevolezza di sfumature delle quali è capace. Di qualità il comparto dei caratteristi: Romano Dal Zovo quale Principe di Bouillon, Gianluca Sorrentino quale Abate di Chazeuil, Luca Gallo quale Quinault e Stefano Consolini quale Poisson.