Non accade spesso di ascoltare il raveliano Concerto per la sola mano sinistra, stante l’enorme grado di virtuosismo, ovvero le inarrivabili difficoltà tecniche che la sua esecuzione comporta, richiedendo doti che solo un numero assai ristretto di pianisti di fama internazionale può vantare: non a caso, sono davvero in pochi ad averlo in repertorio.
Ancora più raro ascoltare, in una medesima serata, anche il più frequentato (e sublime) Concerto in sol. Già tale circostanza sarebbe sufficiente a rendere oltremodo appetibile l’appuntamento; se poi a proporli è una star della tastiera del calibro di Yuja Wang, si comprende facilmente il sold out annunciato da mesi.
Sala gremita, dunque, la sera di domenica 3 settembre 2023 a Stresa, presso il Pala Congressi, oggi ridenominato Stresa Festival Hall, dall’acustica (invero solo parzialmente) migliorata grazie all’installazione, tempo addietro, di pannelli lignei e dispositivi ad hoc. Orchestra in gran spolvero – e si trattava dell’Orchestre Philarmonique de Radio France diretta dall’astro ormai ben più che nascente Tarmo Peltokoski – e molte, comprensibilmente, le aspettative da parte del folto pubblico che gremiva la sala, in occasione del concerto in assoluto più atteso per il cartellone di Stresa Festival 2023. Aspettative che non sono certo andate deluse. Sul palco, dopo una ‘teatrale’ e silente attesa di alcuni minuti, col fiato sospeso, ecco che appare lei, gran mattatrice, in un’appariscente mise giallo limone: e gli applausi deliranti dei suoi fans più fedeli (e non solo di quelli) fioccano già solo quando si presenta sul proscenio, prima ancora di toccare la tastiera, profondendosi in quei suoi inchini generosi e un po’ buffi tant’è che pare con la fronte sfiorare lo sgabello del gran coda d’ordinanza.
Dei due Concerti è parso perfettamente a fuoco, sotto il profilo stilistico, soprattutto il pur meno accattivante Concerto per la mano sinistra (eseguito per secondo). Quasi una lezione di stile, quella offerta dalla Wang. E allora ecco l’esordio, cupo e bruitistico, poi l’abbacinante cadenza con il rombare dei bassi e più oltre quelle oasi sognanti e melanconiche, impregnate di estenuata dolcezza idiomaticamente raveliana, i passi di marcia energici e inesorabili che paiono anticipare certo Šostakovič, giù giù sino all’assertivo epilogo. Un’esecuzione di gran classe, quella offerta dalla Wang, che ha tecnica da vendere (anche se non sempre ha un affondo completo del tasto, sembrando per lo più volare sulla tastiera), possiede – si sa – un’agilità invidiabile, nervosismo saettante del tratto e un’articolazione incredibilmente nitida, ben assecondata dalla compagine orchestrale che il giovanissimo Peltokoski ha governato con mano salda, infondendovi una variegata palette coloristica, comme il faut.
Un filino meno convincente – quanto meno a giudizio di chi scrive, ma anche di altri ‘colleghi’ presenti in sala – il meraviglioso Concerto in sol, ancorché, beninteso, si fosse pur sempre a livelli elevatissimi. Il direttore ha fatto del suo meglio infatti per fare emergere le vistose assonanze con Stravinskij, Satie, Milhaud &.c, per evidenziare le boutades jazzistiche di ascendenza gershwiniana e via elencando; pur tuttavia qualcosa di (impercettibilmente) irrisolto, specie quanto a sintonia solista / orchestra / direttore, pareva aleggiare nel corso della performance. Bene il primo tempo, nel suo complesso, laddove invece nel mirifico Adagio dalle fraseologie che paiono attingere al mondo iperuranio, avremmo auspicato una maggior intensità e una più consapevole differenziazione timbrico/dinamica delle singole note, non sempre centellinate con cura millimetrica dalla Wang: che nel finale si è poi fiondata a velocità molto elevata (forse fin eccessiva, mostrando di privilegiare un effettistico atletismo), mettendo così a dura prova il sincronismo con l’orchestra che in qualche passaggio è pertanto venuto meno. Il pubblico ha peraltro mostrato di gradire enormemente l’interpretazione della sua indiscussa beniamina, salutata da una vera e propria standing ovation. Primo bis a sorpresa e allora ecco arrivare Peltokoski armato di tablet, sedendo nella parte acuta della tastiera: assieme hanno dato vita a una palpitante interpretazione del notissimo Libertango di Piazzolla, ponendone in luce tutta la sensualità, lo charme e la vitalità ritmica, con un affiatamento tale da parere un consolidato ‘duo’. Da vero manuale. Infine la Wang si è ripresa la scena suonando una nota pagina di Kapustin, ovvero la pirotecnica Toccatina op. 40 n. 3 dagli insistenti ribattuti e imbevuta di ritmi sincopati, in bilico tra Rachmaninov, Prokof’ev, echi jazzistici e altro ancora. Applausi scroscianti e atmosfera elettrizzata in sala.
Luci ed ombre invece per i musorgskijani Quadri da una esposizione, ovviamente nella superba orchestrazione di Ravel. Tra le luci annoveriamo senz’altro Baba-Yaga, per l’immane e terrificante massa sonora posta in atto, laddove Il vecchio castello (pur tralasciando l’occasionale défaillance del sax) è parso un po’ ‘tirato via’, come monocromo, in bianco e nero; così pure i Due ebrei avrebbero potuto venire caratterizzati assai meglio; Bydlo lo avremmo desiderato in 3d e invece appariva un po’ sbiadito. Bene invece Tuileries e Limoges per brillantezza e verve, mentre i crescendo e diminuendo richiesti in Catacombae erano decisamente troppo affrettati e privi di spessore. Mancava infine della dovuta monumentalità la Grande porta di Kiev. Applausi convinti al giovane direttore dal gesto plateale e mediamente preciso, ma che non sempre si traduce in altrettanta efficacia: ha la vita dinanzi, avrà tempo per maturare e approfondire. Buona l’accoglienza dell’orchestra che, pur attestata su uno standard qualitativo medio-alto, non raggiunge peraltro i vertici delle maggiori compagini di fama internazionale
Entrambi – direttore ed orchestra – si sono riscattati poderosamente nel bis, chiudendo idealmente il cerchio con Ravel: e si è trattato dell’ultimo brano da Ma mère l’Oye, vale a dire Le Jardin féerique, reso con calibratissimo senso della forma e un indicibile crescendo verso l’ebbro scampanio conclusivo che ha suggellato festosamente la serata, lasciando attoniti e ammirati.
Molte le Highlights dello StresaFestival edizione 2023 che ha contemplato incursioni nel mondo vivaldiano posto al servizio della danza (Brixia Musicalis, Elisa Citterio violino e direttore e James Wilton Dance); una vera e propria monografia monteverdiana che tentava felicemente una ricostruzione della prima del celeberrimo Combattimento di Tancredi e Clorinda; la visione di una Napoli pop, grazie all’Arpeggiata (Vincenzo Capezzuto alto, la tiorba e la direzione di Christina Pluhar). Grandi emozioni poi nella suggestiva location dell’Eremo di Santa Caterina del Sasso con Mario Brunello, direttore artistico di Stresa Festival che, interpretando le bachiane Sonate e Partite con il violoncello piccolo, lascia un segno potente, non meno che decidendo di ‘ambientare’ più di un concerto en plein air, puntando su simbiosi tra musica e natura, grazie anche alla nuova struttura acustica denominata La Catapulta. Applaudita Alëna Baeva sul versante violinistico di Schubert, Janáček, Rachmaninov e Franck, e così pure il recital di Sergey Malov (violino e l’inconsueto violoncello da spalla) con Flóra Fábri al fortepiano. E ancora, la proteiforme fisarmonica di Félicien Brut, l’arpa di Fabrice Pierre e un dittico Prokof’ev / Stravinskij (Romeo e Giulietta versus Petruška), il Barbican Quartet e la Camerata RCO.
Chiusura del festival con gli attesi appuntamenti con Angela Hewitt (il 5 settembre), in equidistanza tra il Bach del suo adorato Clavicembalo ben temperato e lo Schumann della Sonata op. 11, poi lo stimolante duo di violoncello e violino costituito da Matthias Bartolomey e Klemens Bittmann e un programma fuori dagli schemi, infine il Mozart delle Sinfonie K 543, K 551 ‘Jupiter’ e della Concertante K 364, la sera dell’8 settembre: nell’interpretazione di lusso de Le Concert de La Loge, con Julien Chauvin nel doppio ruolo di violino solista e direttore. What else?