di Francesco Lora
Una recensione che parte dal futuro. Nel 2024 Pesaro sarà Capitale italiana della Cultura e il Rossini Opera Festival, che di quell’autorevolezza culturale è un protagonista, vanterà un cartellone ampliato rispetto al solito, nonché altre buone notizie.
Le produzioni operistiche principali saranno quattro anziché tre: nuovo allestimento di Bianca e Falliero nel Palafestival finalmente riaperto come Auditorium Scavolini (direttore Roberto Abbado, regista Jean-Louis Grinda), altro nuovo allestimento di Ermione nella Vitrifrigo Arena (direttore Michele Mariotti, regista Johannes Erath), ripresa dell’Equivoco stravagante del 2019 nel Teatro Rossini (direttore Michele Spotti, registi Moshe Leiser e Patrice Caurier) e ripresa del Barbiere di Siviglia del 2018 ancora nell’Arena (direttore Lorenzo Passerini, regista Pier Luigi Pizzi). Ci sarà il consueto Viaggio a Reims interpretato dagli allievi dell’Accademia Rossiniana, ma ce ne sarà anche uno in forma di concerto (direttore Diego Matheuz) per celebrare i quarant’anni anni da quello che resuscitò la partitura (direttore Claudio Abbado, regista Luca Ronconi). La rassegna (17-23 agosto) durerà quattro giorni più dell’abituale, per far spazio alla recite del Barbiere, e sarà dunque anche più ricca di concerti diurni. Il direttore artistico de iure, Juan Diego Flórez, sul quale si staglia quello de facto, il sovrintendente Ernesto Palacio, si arrischierà a debuttare nella vertiginosa parte di Oreste in Ermione, a 51 anni e avendo ormai ridotto al minimo la quotidianità rossiniana che da ragazzo lo rese famoso. Allibramento melomaniaco in corso, invece, nello scommettere sui molti cantanti che andranno a occupare caselle altrettanto insidiose, in questo festival che rimane la più importante borsa mondiale del belcanto, compresi quei capricci di mercato che anni dopo faranno arricciare il naso nello scorrere la cronologia, e compresi quei miracoli predisposti o imprevisti che lasceranno cicatrici di gioia, stupore e savoir faire.
QUALE VERITÀ NEI NUMERI?
Preoccupano, invece, i numeri del ROF 2023, con i suoi canonici tredici giorni di svolgimento (11-23 agosto), quasi quaranta alzate di sipario, centocinquantatré giornalisti da ventitré nazioni, 13.576 presenze da trentanove nazioni e un incasso di 750.075 euro. Preoccupano poiché aumentano i giornalisti – con sospetto di proporzione inversa rispetto alla qualità, come dappertutto – mentre presenze e incassi diminuiscono. Ma preoccupano soprattutto, tali numeri, poiché rischiano di castigare per grette ragioni di pallottoliere un programma tra i più validi negli ultimi anni, forte cioè di autentico sapore festivaliero, fil rouge tra i testi eseguiti, coraggio nel pianificarne la proposta e varietà interpretativa d’approccio.
Qualcuno obietterà – si vuol dire – che un’offerta più popolare – quella per esempio di un’Italiana in Algeri, un Barbiere o una Cenerentola, ossia ciò che il ROF dovrebbe evitare a meno di non distinguersi da un teatro lirico qualunque – avrebbe attirato più pubblico e fatto vendere più biglietti. Ma il problema è un altro, composito: lo spettatore medio, quand’anche affezionato, è un cittadino che nell’ultimo anno ha perso potere d’acquisto; Pesaro è una città turisticamente sempre più costosa; il ROF, costretto quest’anno a rinunciare al Teatro Rossini, e a dividere gli spettacoli tra la decentrata Vitrifrigo Arena e lo squallido Teatro Sperimentale, entrambi però con una buona visibilità da ogni posto, ha di conseguenza una gamma di prezzi poco diversificata: nel caso di un’opera, 180 euro massimi risultano pochi per lo spettatore facoltoso e 60 minimi rimangono molti per quello meno spensierato, così come le drastiche riduzioni previste, va detto – riguardano sì il benvenuto ragazzo con paghetta ma non il malgré soi dilagante quarantenne precario; sicché, per tre giorni di spettacoli, una coppia è invitata a spendere – tutto calcolato – più che l’intero stipendio mensile di un buon professionista. Non è una colpa del ROF, bensì uno stato di fatto sociale col quale tocca fare i conti.
UN PROGRAMMA TRA I PIÙ VALIDI
Si torni ora a quel «programma tra i più validi degli ultimi anni», il modello del quale piacerebbe veder ripreso e non castigato. Le tre produzioni principali del 2023 constano di opere nessuna delle quali è oggi nel repertorio dei teatri lirici, concentrate in sei anni produttivi sui quasi venti di attività drammatica di Gioachino Rossini, tutte afferenti al genere serio e alla grandiosità d’impianto (virtuosismo sfrenato, coro anche femminile, orchestra al completo) ma nemmeno una concepita per le roccaforti della Fenice di Venezia, del San Carlo di Napoli o dell’Académie royale di Parigi. Essa danno luogo a una full immersion non già nel Rossini minore, bensì in quello di snodo, in ombra o sperimentale, necessario per mettere viepiù a fuoco quello del canone. Di quattro in quattro recite, si tratta allora di Eduardo e Cristina (11-20 agosto; S. Benedetto di Venezia, 1819), Aureliano in Palmira (12-21; Scala di Milano, 1813) e Adelaide di Borgogna (13-22; Argentina di Roma, 1817). Tali lavori implicano anche l’acrobazia, per la direzione artistica, di provvedere non per una, ma per tre volte a una prima donna soprano e a un primo uomo en travesti – reciprocamente, amorosamente ed estensivamente declinati in vari modi – nonché a un antagonista tenore, di quel calibro baritonaleggiante oggi divenuto più raro e dispendioso che non quello contraltino.
EDUARDO E CRISTINA
Dopo che le altre 38 sono già state rappresentate in 43 precedenti edizioni, Eduardo e Cristina completa finalmente il novero delle opere rossiniane al ROF. Era stata sottovalutata dalla vecchia generazione di studiosi rossiniani, che la ritenevano un mero collage di brani ripresi da altre partiture (Adelaide di Borgogna, Mosè in Egitto, Ricciardo e Zoraide ed Ermione; lo struggente cantabile nel rondò di Malcom nella Donna del lago, invece, trae la propria origine proprio da quello, nuovo, di Eduardo); è stata ora riscattata, quest’opera, dall’ultima generazione di studiosi, i quali traggono dagli autoimprestiti rossiniani ampio insegnamento, molto divertimento e nessun imbarazzo, oltre ad aver essi appurato che i brani “riciclati” vantano in verità fior di varianti – melodie, strumentazione, tonalità – e la messa a nuovo del ruolo drammaturgico.
Dal punto di vista teatrale, il ROF non avrebbe potuto dare di Eduardo un’idea più neutra che affidandola al pentavalente regista, scenografo, costumista, light designer e coreografo Stefano Poda. Idea neutra, si diceva, e tuttalpiù stilizzatamente epica, ma non provocatoria: fa sorridere quel melomane il quale non sappia da almeno quindici anni che il lavoro di Poda consiste in installazioni d’arte contemporanea semoventi e oniricheggianti, uscite da una soggettiva suggestione psicologica anziché da un’analisi concreta della drammaturgia, in modo tale che ciascuna sua regìa potrebbe – fuorché per lui, s’intende – essere associata a qualsivoglia altra opera. Manca dunque il lavoro con gli attori, e non è una novità, mentre il pretestuoso impatto visivo, soprattutto sul versante coreografico, denota tuttavia un professionista notevole per disinvoltura scenotecnica, non certo da sbertucciare, e indigesto ai più soprattutto per aver fatto da asso pigliatutto, in pochi mesi, tra la nuova Aida all’Arena di Verona, questo debutto al ROF e la prossima Juive al Regio di Torino.
Il punto debole di questo Eduardo sta piuttosto nella direzione di Jader Bignamini, non specialistica già nei primi tre accordi ribattuti della Sinfonia, col levare comodamente accasciato sul successivo battere anziché dargli una filologica sferzata. Di questa partitura quasi per nulla nota e offerta per la prima volta in edizione critica – l’occasione dovrebbe dunque avere il sapore di una messa solenne, non di un rosario tra pie anziane; e il nuovo “messale” della Fondazione Rossini è curato dai musicologi Andrea Malnati e Alice Tavilla – egli, Bignamini, dà una lettura placidamente trascinata attraverso lo smussamento dei rilievi ritmici: capita quindi che i brani ripresi da Adelaide, e dunque ascoltati negli stessi giorni a Pesaro, siano stati assai più aggressivamente armati con percussioni da Rossini in Eduardo, ma così diretti, con la stessa, eccellente Orchestra sinfonica nazionale della Rai, risultino paradossalmente più fiacchi. Però Bignamini è anche l’unico, tra i concertatori di questo ROF, a munirsi per i recitativi secchi di un basso continuo affidato non al solo fortepiano, ma anche a un violoncello: si avvicina così alla prassi autentica dell’età rossiniana, la quale contemplerebbe inoltre il contrabbasso e farebbe agire il violoncello per accordi.
A formare la coppia di amorosi protagonisti, con curricula curiosamente invertiti, sono il mezzosoprano di più acclarata specializzazione rossiniana e di più lunga militanza pesarese, benché i trent’anni di carriera e la tentazione di altro repertorio mostrino i segni, e un soprano al suo debutto assoluto e forse occasionale in un’opera belcantistica di pieno spessore, referenziato però da un temperamento entusiastico e da generosissimi mezzi canori. Daniela Barcellona, come Eduardo, in parole esplicite, presenta oggi emissione un po’ affannosa e malferma, affaticata nel tenere insieme registri fra loro interrotti, e una coloratura un po’ arruffata là ove un tempo scorreva rotonda e granita. Ella rimane però, impressionando oggi più di ieri, maestra del porgere scolpito e commosso, affettuoso ed eroico in un sol tempo: cinque anni dopo il suo ultimo concerto e ben undici dopo l’ultima opera al ROF, ecco la beniamina tornata a riscuotere ovazioni con alti interessi maturati. Anastasia Bartoli, come Cristina, richiede invece tuttora qualche presentazione: versatile nel repertorio – è stata Elvira in Don Giovanni a Firenze, miete il Verdi drammatico, sarà la protagonista in Tosca a Parma – e attrice ben impegnata, ha linea vocale più affilata che vibrante, risonanza importante, vocalizzazione degna e timbro riconoscibile; la sua smorzatura del Do sopracuto interpolato, nel primo cantabile della gran scena, rimarrà la nota più commovente del ROF 2023; e che la si ami o no – la sua vocalità, spigolosa e vetrosetta, non è fatta per piacere a tutti – si avrà un gran bisogno di una cantante come lei onde risolvere endemici grattacapi di casting. Infine, detto al volo del roccioso basso Grigory Shkarupa, come malefico Giacomo, e del simpatico tenore Matteo Roma, come benefico Atlei, resta da dire di una terza gloria nella breve locandina. Enea Scala è uno tra i rari, veri tenori di grazia capaci, per amabilità di natura e scaltrezza di tecnica, di cantare a fior di labbro, e tuttavia in grado di convertirsi – per necessità di mercato, così giovando a Rossini, al ROF e ai melomani – in tenore baritonaleggiante. E che tenore baritonaleggiante! La parte di Carlo, a lui spettante, fa man bassa di quella di Pirro in Ermione, spaventosa per scrittura di sbalzo, agilità di forza, lunghezza dei brani e massa dell’orchestra: Scala non solo affronta il tutto senza battere ciglio, ma anche vi aggiunge del proprio con fare divertito.
Chi avrebbe immaginato tanta fortuna? Tra la Bartoli e Scala, il ROF si trova in tasca due candidati forti per quel dramma della candidabilità canora che rimane, quanto alla protagonista e a Pirro, oltre che a Oreste, Ermione di Rossini; l’una sarebbe preferibile alla quotatissima Vasilisa Berzhanskaja, che nel suo concerto pesarese dell’anno scorso ha però deluso proprio nella gran scena della principessa spartana, mentre l’altro è oggi la miglior alternativa all’imprendibile Michael Spyres, che l’anno prossimo snobberà il belcanto per debuttare a Bayreuth come Siegmund nella Walküre. Chi ancora nutre dubbi, si faccia passare le piratesche registrazioni dei récitals di belcanto tenuti, dopo l’ultima recita di Eduardo, da Scala accompagnato al pianoforte dal sopraffino Michele D’Elia (21 agosto) e dalla Bartoli accompagnata invece dalla mamma Cecilia Gasdia (l’indomani): per lui, un programma di quasi due ore e attraverso ogni repertorio, con franca comunicativa mediterranea e senza un solo velo di stanchezza o risparmio; per lei, un concerto che procede curiosamente in rovescio cronologico, senza una grinza, dal Verdi di Macbeth e dal Wagner di Lohengrin fino al Rossini del Barbiere.
AURELIANO IN PALMIRA
La seconda opera in cartellone, Aureliano in Palmira, pone in prospettiva la prima. Non vi è più coinvolta la lussuosa e numerosa Orchestra della Rai, bensì l’Orchestra sinfonica “G. Rossini”, che tuttavia, nei suoi mezzi meno tetragoni e insolenti, mostra una dedizione per nulla minore verso la musica del suo patrono, anzi, forse, una più genuina idiomaticità italiana e operistica. Il Coro del Teatro della Fortuna di Fano prende, a sua volta, il posto di quello del Ventidio Basso di Ascoli Piceno, rustici entrambi – la perduta collaborazione storica col Coro del Comunale di Bologna, per un infruttuoso impuntarsi del teatro felsineo, non ha giovato ad alcuno – ma il secondo più flebile del primo. Indicativo, soprattutto, è che un direttore come George Petrou, tecnicamente non paragonabile a Bignamini, lo sopravanzi tuttavia negli esiti grazie a un più evidente interesse verso la partitura affidatagli e a una più esperta abilità di decodificazione del linguaggio tardo-classico, proto-romantico, insomma para-napoleonico del giovane ma già celebre Rossini. Basta ascoltare i comandi dati ai timpani: vi rimbombano tutt’insieme l’eccitante sonorizzazione del mondo militare, lo schianto dell’anima oppressa dagli eventi, il tuono che viene dalla natura di Beethoven.
Realizzata in modo mirabile è la coppia degli amorosi, la più forbita del festival, e tanto più per la convivenza di meriti individuali e “coniugali”: avviene dunque adesso ciò che era mancato nell’Aureliano pesarese del 2014, con Jessica Pratt a torreggiare nell’aspetto e nel canto su Lena Belkina. Lei, la regina Zenobia, soprano acutissimo, spetta ora alla stessa Sara Blanch che due anni fa era stata, nella Fille du régiment al Donizetti Opera di Bergamo, la più comica, sincera, toccante e spigliata Marie mai osservata e ascoltata: a dimostrazione di quanto poco il genio verace ammetta confini e classificazioni, eccola trasformata in superba prima donna tragica, capace di accentare regalmente la parola anche nell’impeccabile levità dei cantabili. Con lo Scala di Eduardo ella raccoglie le più interminabili ovazioni del festival, e compete per soggiogante bellezza di figura e pregnanza di gesto col suo primo uomo. Questi, il principe Arsace, non contralto ma soprano poco sfogato, spetta ora alla stessa Raffaella Lupinacci che nove anni fa era stata, nella stessa opera, la seconda donna Publia: la sacrosanta promozione procura un deuteragonista di adolescenziale impulsività, mobilissimo nell’espressione dietro una prematura scorza virile da guerriero; un capolavoro vocale tutto condotto su una tecnica di ferro e sul ripiegamento delle sfumature anziché sull’esibizione dei mezzi: se si è in cerca di un Falliero per l’anno prossimo, ecco trovata, nella Lupinacci, una soluzione anche a questa incombenza scabrosa. Più complesso il resoconto intorno a Alexey Tatarintsev, Aureliano, che non è il protagonista bensì, secondo la tradizione dell’opera seria, il personaggio cui spetta il titolo per l’essere il più alto in rango sociale. Si tratta di un tenore encomiabile per amabilità, morbidezza e omogeneità timbrica, agiato in una tessitura acuta e valorizzato più nel canto spianato che in quello spiegato, ideale dunque per «Dalla sua pace» e un po’ meno per «Il mio tesoro intanto»: peccato che qui si stia parlando non di Ottavio in Don Giovanni, ma di una scrittura giocata sullo sbalzo canoro e la scolpitura verbale. Sono titolari di arie anche il puntuale Gran Sacerdote di Alessandro Abis e la fervida Publia di Marta Pluda.
A dare segni di senescenza resta non altro che il ripreso allestimento con regìa di Mario Martone, scene di Sergio Tramonti, costumi di Usula Patzak e luci di Pasquale Mari: il riadattamento dal Rossini alla Vitrifrigo lo ha raffreddato, l’irruzione di capre nella mutazione campestre non sorprende più, non si coglie il perché dell’includere il fortepiano nell’immagine scenica. S’allargano le braccia quando, nel coro conclusivo del lieto finale, si finisce distratti dalla proiezione di didascalie le quali precisano, moralisticamente, che la realtà storica fu un’altra: grazie per questo quasi chiedere scusa dell’esistenza del teatro e della sue licenze; a pro di Martone, di questa sua trovata ci si era altrimenti belli che scordati.
ADELAIDE DI BORGOGNA
Il nuovo allestimento di Adelaide di Borgogna ha regìa di Arnaud Bernard, scene di Alessandro Camera, costumi di Maria Carla Ricotti e luci di Fiammetta Baldiserri; è la gemma drammaturgica del ROF 2023, e ha un solo difetto: per comprendere appieno questa lettura, traboccante di spunti, controscene e ironia, sarebbe d’aiuto assistere allo spettacolo non una sola sera, ma – e non tutti possono – due o tre, o addirittura le quattro su quattro nelle quali s’è invischiato lo scrivente. L’opera in sé nulla ha di meta-teatrale e soffre anzi di una certa esilità drammatica: l’aitante imperatore Ottone I di Sassonia va a salvare l’oppressa donzella Adelaide, dalla cui pretesa sul regno d’Italia vorrebbe trarre vantaggio Berengario II, margravio d’Ivrea, costringendola a sposare il figlio Adelberto. Con mano leggera ma gesto sicuro, Bernard la mette in scena mostrando il percorso di preparazione dello spettacolo stesso, dalla prova di regìa a quella generale: la psicologia e le relazioni tra gli interpreti vanno allora a coincidere, al millimetro, con quelle dei loro interpreti, fino a che il soprano-Adelaide, coniugalmente tradito dal tenore-Adelberto, che ha per meschino sodale il basso-Berengario, accetta l’anello di fidanzamento dal contralto-Ottone, ossia dalla collega che s’è macerata con lei in un percorso parallelo di conoscenza di sé e dell’altra. Mano leggera ma gesto sicuro, si diceva, senza traccia di offesa e scandalo. Per aggiungerne una, è anzi l’occasione di offrire momenti di teatro-nel-teatro realizzati con taglio iper-tradizionale, costumi storici e scene dipinte calate dall’alto: un incanto a guardarsi, ma anche un monito verso quel pubblico che avversa l’evoluzione del linguaggio teatrale, senza avere chiara coscienza di cosa significherebbe, in concreto, nella tecnica di scena e nella lucidità di messaggio, il ritorno all’antico in quanto tale.
L’eccellente esito di è garantito dalla compagnia nel complesso più magnifica e coinvolta del corrente festival. Si parla di una prima donna, Olga Peretyatko, Adelaide, che tanto sa giocare nell’auto-rappresentarsi ironicamente, quanto sa sbigottire con l’abbagliante forma vocale, in un canto oggi più sicuro, sfumato e luminoso che mai, ove paiono sintetizzarsi appetitosamente tratti gruberoviani e netrebkeschi. Si parla di un primo uomo, Varduhi Abrahamyan, Ottone, che al ROF è già stata Malcom nella Donna del lago e Arsace in Semiramide, ma che in questo caso supera sé stessa, evocando addirittura Ewa Podles, per sorniona e altera energia di fraseggio nonché per maturo perfezionamento virtuosistico. Si parla di René Barbera, Adelberto, il tenore di più fragrante timbro nel cartellone pesarese e dunque applauditissimo al termine della propria aria, e di Riccardo Fassi, Berengario, il basso che con vocione suadente e folto barbone fa virare l’asticella della sensualità da “principe azzurro” a “re protervo”. Nel comprimariato di responsabilità si distinguono Paola Leoci, bene, come Eurice, e Valery Makarov, meno bene, come Iroldo. Disponibile il Coro del Ventidio Basso, che col teatro-nel-teatro si è trovato, per così dire, a cantare un’opera-nella-opera, ed eccellente l’Orchestra della Rai, che s’è invece trovata a suonare due letture differenti della stessa partitura.
Ecco di séguito raccontata l’avventura che spiega lo strano asserto. Concertatore titolare è Francesco Lanzillotta, e interessa poiché, senza pretendere in Adelaide un vertice della produzione rossiniana, serve tuttavia amorevolmente quest’opera, ricollegando lo strumentale a limpidezze paisielliane, accompagnando con mobile destrezza le voci – non è semplice, in un’opera stracolma della prescrizione col canto, tramite la quale podio e orchestra dipendono dall’arbitrio del cantante – ed esibendo i luoghi dove la musica-nella-musica c’è per davvero (gli squilli di trombe nel Finale I, mimetizzati nell’orchestra a fanfareggiare mentre l’imperatore esce in scena). All’indomani della “prima” (13 agosto), però, Lanzillotta incappa in un brutto incidente stradale e rinuncia poi a proseguire le recite. Mancano poche ore alla successiva alzata di sipario e non dev’essere facile trovare, su due piedi, un direttore che abbia in repertorio Adelaide. C’è però un ragazzo, Enrico Lombardi, che di Lanzillotta è stato assistente in anni passati, e che ha assistito alla prova generale e alla “prima” dell’opera, venendo a Pesaro per seguire il ROF e salutare il collega e amico; non ha mai ascoltato né letto una sola nota di Adelaide; che però sia uno con la testa sulle spalle lo sanno quelli che nel dicembre-gennaio scorso hanno ascoltato La traviata da lui diretta – senza un solo scellerato taglio di tradizione e con inedito rispetto dei segni d’espressione originali – nel circuito di Opera Lombardia. Insomma, Lombardi studia da zero l’opera in 24 ore e va in recita (16 agosto) senza nemmeno una prova d’assestamento con i cantanti e con l’orchestra. Per lui è un trionfo, con musicisti e pubblico ugualmente plaudenti sui due fronti. Colpisce tanto più che in quella recita di salvataggio, via crescendo nelle successive da lui ereditate, non vi sia una meccanica replica della lettura di Lanzillotta, ma se ne definisca, con la discrezione del caso, una nuova e personale: la timbrica acquisisce tonalità più scure e ombrose, i legni cantano i loro passaggi avanzando di piano, i cantanti chiedono e ottengono cantabili più posati, come passando da una reminiscenza di Paisiello a una genuflessione verso Schubert. Il ROF non si dimentichi di questo musicista coi fiocchi.
BOLLETTINO ROSSINIANO
Non va dimenticato nemmeno il récital del contralto Teresa Iervolino, accompagnata al pianoforte da quella volpe astuta di Giulio Zappa (19 agosto): programma interamente rossiniano, tra Péchés de vieillesse e arie d’opera, nel dettaglio le cavatine del primo uomo in Tancredi e Semiramide, quella di Andromaca in Ermione e la gran scena del protagonista in Ciro in Babilonia, più il bis, sperimentale sì ma già plausibilissimo, di «Stride la vampa» dal Trovatore; il tutto con la voce oggi di più sontuoso velluto italiano, la quale meriterebbe il ritorno a Pesaro in un’opera congeniale. Uno l’opposto dell’altro i due concerti lirico-sinfonici: sguaiato nelle eclettiche scelte di programma e negli inappropriati modi da cabaret quello col mezzosoprano Maria Kateva, il direttore Marco Mencoboni e la Filarmonica Gioachino Rossini (20 agosto); elegante, con la sua teoria di sinfonie e arie tutte rossiniane, quello con il canto sobrio, sottile e ispirato di Rosa Feola, la direzione critica e senza fronzoli di Sesto Quatrini e la Sinfonica Rossini (17 agosto). Tre giovani cantanti, perfezionatisi all’Accademia Rossiniana e impegnati nella prima recita del Viaggio a Reims (16 agosto), meritano la menzione: il mezzosoprano Seray Pinar come smaltata Marchesa Melibea, il tenore Paolo Nevi come rifinito Cavalier Belfiore e il baritono Valerio Morelli come pregiato Barone di Trombonok.
Finalmente al ROF (15 agosto) anche la negletta Cantata in onore del sommo pontefice Pio IX, che delude, però, a causa di mezzi non adeguati a questa partitura esigente: brutto, cioè, ascoltare la banda di palcoscenico, che deve essere un complesso a sé stante in dialettica con l’orchestra, redistribuita dentro l’orchestra stessa; lodevole, nel contempo, l’abnegazione di Marina Monzó nella parte della Speranza, ove l’autore ricicla l’insidioso quartetto di Armida, mentre converrà tenere d’occhio Michael Mofidian, giovane basso britannico il quale, come Genio cristiano, se si chiudono gli occhi, ricorda qui e là nientemeno che Samuel Ramey. Nel cartellone trova posto anche un’altra composizione congenere, la Cantata in morte di M. F. Malibràn (14 agosto): vi spicca il soprano Giuliana Gianfaldoni, maestra di filati siderei, e vi si notano un’altra volta le doti di Mofidian. La proposta di tale partitura va accolta con interesse e gratitudine anche perché costituisce una rara apertura del ROF verso lavori di ampio respiro dovuti non a Rossini, ma ai suoi contemporanei: nel caso presente, Donizetti, Pacini, Mercadante, Vaccai e il meno noto Pietro Antonio Coppola.
Iniziative siffatte consentono di meglio comprendere la figura e l’opera di Rossini nel loro più ampio contesto socio-culturale, per il quale la renaissance procede tuttora a brevi passi. Si saluta dunque con attenzione e simpatia la seconda edizione del festival “Il belcanto ritrovato”, che inizia giusto l’indomani del ROF e si distribuisce nelle province di Pesaro-Urbino e Macerata (24 agosto – 3 settembre): a promuoverlo è la Sinfonica Rossini stessa, meritoriamente, e l’obiettivo è appunto quello di far luce sul primo Ottocento italiano, più lambendo Rossini che toccandolo. Tra diversi concerti, l’anno scorso vi era stata restituita alle scene la farsa Cecchina suonatrice di ghironda di Pietro Generali (Venezia, S. Moisè, 1810), mentre quest’anno, ammiccando al romanzo di Andrea Camilleri, la scelta è caduta sui tre atti dell’opera Il birraio di Preston di Luigi Ricci (Firenze, Pergola, 1847): una sola recita nel Teatro Sperimentale di Pesaro, il 25 agosto, con distinzione particolare del brillante baritono Gianni Giuga, come protagonista, e dello spiritoso mezzosoprano Aloisa Aisemberg, come Miss Anna. Auspicio affinché tale rassegna, complementare del ROF senza pestargli i piedi, guadagni il sostegno e il sostentamento dei quali necessita onde alzare la propria qualità artistica.