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Opera • In scena nel teatro torinese il titolo rossiniano con la regia di Vittorio Borrelli e la direzione di Daniele Rustioni
di Attilio Piovano
[LA] genialità rossiniana? Ma certo, Il barbiere, Cenerentola e via elencando i titoli più celebri e perché no anche qualche rarità. In molti, pur tuttavia – non a torto – ne collocano l’acme assoluto, il vero e proprio clou nella fortunata ed efficacissima partitura dell’Italiana in Algeri: come a dire, comicità allo stato puro, la quintessenza del divertissement. E non a caso L’Italiana continua a costituire un vero e proprio evergreen presso i teatri di tutto il mondo. Al Regio di Torino la si era vista nel marzo del 2009, in un bell’allestimento che – poi riproposto con gran successo en plein, nella suggestiva location estiva del Castello di Racconigi, nel 2010 – viene ora ripreso nella sala molliniana, quale penultimo titolo in cartellone per la stagione 2012/13. La regia reca la firma di Vittorio Borrelli, una regia intelligente e pulita, del tutto funzionale allo spettacolo con molte e simpatiche gags, come occorre, pur tuttavia sempre misurate, garbate, senza inutili eccessi, né leziosaggini o smancerie: muove bene i personaggi, con arguzia e brio, dando loro il giusto spessore. Impagabili le rincorse nei confronti di Taddeo, più volte minacciato di venire impalato (con pali via via di diverso diametro, e impatto visivo di sicuro effetto) e così pure la vestizione di Mustafà, pudicamente nascosto da un ampio asciugamano bianco sostenuto da graziose comparse. E il bagno turco, e la scena del caffè davvero amabile poi la messinscena del buffo “rito” di Pappataci. E ancora: naïf il passaggio di imbarcazioni sul fondale, con tanto di rumore del mare (un po’ oleografico, sì, ma ci sta a onor del vero, con buona pace dei puristi), perfino alcuni nuotatori a strappare sorrisi complici in sala, bel movimento delle masse e del coro, insomma uno spettacolo davvero gradevole e di ottima resa visiva. Anche questa volta – come già nel 2009 e a Racconigi – si sono fatte ammirare le raffinate scene di Claudia Boasso, screziate, variopinte e policrome, comme il faut: ad incorniciare il tutto, decorazioni traforate in stile vagamente moresco, un enorme cuscinone centrale e cuscini multicolori, a rendere il clima festoso; scene tradizionali, certo, ma allestite con grande gusto e fantasiosa creatività, sicché ne risulta un insieme armonico, gradevole e sereno, esattamente quanto occorre a porre in evidenza la partitura rossiniana (coerenti e valide le luci mediterranee e solari di Andrea Anfossi). Perfettamente in sintonia gli stupendi costumi firmati dall’esperta Santuzza Calì.
Sul podio il giovane e ormai affermato Daniele Rustioni dirige con precisione ed efficacia cesellando con eleganza la sublime partitura. Ha compiuto – pur in tempi serrati, dovendosi allestire in pratica a ridosso di questa Italiana il prossimo Elisir – un accurato lavoro di concertazione. E il risultato lo si è percepito nel corso della prima, domenica 9 giugno. Bene, in complesso, gli equilibri tra voci soliste, coro e orchestra, appropriato lo stacco dei tempi, per lo più molto scorrevoli (nulla però di “tirato via”, come si suol dire), ma anche con giusti indugi, ove occorre, colori sgargianti, ma senza inutili esagerazioni, fin dall’Ouverture meritatamente applaudita, Ouverture affrontata con piglio energico e mano sciolta. L’orchestra del Regio ha risposto bene, fornendo una buona prova: meccanismo ben oliato e in ottima forma, pur in chiusura di stagione, senza mai dar segni di stanchezza o cedimento (orchestra di contenute dimensioni, come occorre, conseguentemente rialzata, grazie alla tecnologia del Regio, e dunque con buon impatto acustico). Bene (anche se invero questa volta non benissimo) il coro maschile istruito da Claudio Fenoglio: ha aggiunto il dovuto pigmento alla partitura, e pazienza per qualche lieve scollamento ritmico qua e là, qualche attacco che richiedeva un paio di battute prima di assumere la corretta quadratura ritmica, piccole imperfezioni che di sicuro andranno a posto nel corso delle (sole) quattro repliche.
Sul fronte delle voci ci si è trovati di fronte ad un cast di elevato livello, ben amalgamato e con un buon equilibrio complessivo. Il contralto Daniela Pini nel ruolo chiave di Isabella, pur dotata di tecnica impeccabile, ottima emissione ed eleganza di tratto, ha però voce piccola; soprattutto nell’atto primo talora stentava a raggiungere l’intera sala. Le cose sono andate migliorando alquanto nel second’atto; è peraltro omogenea nei vari registri: scende nel medio-grave con sicurezza e sale con altrettanta souplesse. Buona la presenza scenica, a fine spettacolo si è guadagnata applausi sinceri ed affettuosi, anche se non così copiosi e convinti come quelli fioccati nei confronti dell’ottimo e aitante Antonino Siragusa nei panni di Lindoro. Tecnica perfetta, timbro luminoso, sicurezza assoluta, uno smalto cristallino, sale con naturalezza eccellente, sovrastando l’intera compagine orchestrale con ottimo effetto (talora forza un poco e allora il timbro diventa leggermente metallico). Scenicamente a posto, si muove con un’agilità invidiabile regalando istanti di innegabile piacevolezza. Ed ora il Mustafà di Carlo Lepore, basso di lungo corso e vasta esperienza: irresistibile quanto a comicità, senza mai gigioneggiare, con una gestualità di impagabile spasso. Voce possente, incisiva, perfettamente nella parte, un Mustafà a tutto tondo, come occorre, conseguentemente applauditissimo (nelle repliche l’ormai navigato Simone Alberghini).
Bene Linda Campanella nel ruolo della moglie Elvira, ancorché il timbro della sua voce talora s’inasprisca. Ottimo per contro – come sempre – Roberto De Candia nel ruolo di Taddeo: con la sua vocalità autorevole e con una presenza scenica di tutto rispetto evita il rischio di fare del personaggio una macchietta, strappando applausi convinti per la sua estroversa comicità. Da rilevare il buon esito dell’interpretazione di Haly, da parte di Federico Longhi (apprezzato anche nella spuria «Le femmine d’Italia», celebre e pur gradevole “aria di sorbetto”, inserita a forza nella partitura, ma di fatto ormai ineliminabile, consolidata com’è nella prassi esecutiva: a meno di affrontare i mugugni del pubblico, specie degli incalliti melomani che non vogliono saperne di filologie e via dicendo, e va bene così). Da citare ancora Alessia Nadin (Zulma) ed il mimo Marco Cabras nel ruolo di chef nella spassosa scena che precede la performance di Mustafà quale perfetto Pappataci. Un plauso speciale a Giannandrea Agnoletto – con tanto di turbante – per aver disimpegnato i recitativi con la dovuta scioltezza, disinvoltura e scorrevole flessuosità (molto opportunamente al fortepiano, e non al cembalo, collocato in posizione rialzata, lateralmente con buon risultato sonoro).
Successo vivo, dunque, per uno spettacolo di buon livello, gradevole ed efficace, ormai uno dei vanti del “repertorio“ del Regio. Spettacolo dedicato alla memoria di Bruno Bartoletti, scomparso ottantasettenne la notte precedente la prima di Italiana: direttore che molti affezionati abbonati ricordano con commozione per l’alta professionalità, lungamente sul podio del Regio nei decenni trascorsi.
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