di Luca Chierici
Falstaff con la regia di Robert Carsen è comparso nuovamente alla Scala dopo le recite del 2013 che erano state affidate alla bacchetta di Daniel Harding. Questa volta sul podio si alternava Daniele Gatti, che ha restituito al pubblico una visione dell’opera più in linea con le aspettative e con una tradizione ineludibile che fa ancora capo ai nomi di Toscanini e di De Sabata. Il collega inglese aveva lasciato infatti perplesso più di uno spettatore proponendo una lettura troppo asciutta e sostanzialmente estranea allo spirito della partitura così come pensata da Verdi e senza alcun interesse per la complessa e raffinatissima ricerca linguistica compiuta da Boito. Daniele Gatti aveva diretto il capolavoro dell’ottuagenario maestro già a Londra e a Parigi riscuotendo pieni consensi e anche alla Scala non ha deluso le aspettative, oltretutto grazie alla presenza di un cast dove l’assenza di grandi nomi non costituiva questa volta un titolo di demerito. Il ruolo principale è stato coperto dal giovane Nicola Alaimo, un poco impacciato – più fisicamente che vocalmente – nelle vesti del “re dei panciuti” ma in ogni caso apprezzabile per vivacità, musicalità e presenza scenica.
Accanto a lui si è ammirata soprattutto quella straordinaria artista e cantante che è Eva Mei, perfettamente a proprio agio nei panni di Meg, e una altrettanto vivace Marie-Nicole Lemieux, irresistibile Quickly che aveva già ricoperto il ruolo con Gatti al Covent Garden e si era fatta apprezzare alla Scala in alcune recite dove sostituiva Daniela Barcellona. Ma giustamente applauditi sono stati Massimo Cavalletti – un Ford in linea con le richieste del regista che gli chiede di trasformarsi in un cafone arricchito – Laura Polverelli, Alice forse fin troppo convinta di essere collocata al secondo posto nelle preferenze del vecchio marpione, e la coppia Liebau-Demuro che dava voce ai sempre simpatici personaggi di Fenton e Nannetta. L’allestimento guidato da Carsen ha mostrato questa volta i segni del tempo e la presenza di non poche incongruenze che non aiutano a definire una datazione e una ambientazione certa a tutto l’insieme: la cucina americana anni ’50 del secondo atto mal si accompagna al lussuoso Hôtel di fine secolo che sostituisce la più modesta Osteria della Giarrettiera, e il bellissimo cavallo che l’altra sera si è mangiato un quintale di biada ha rischiato di attirare su di sé l’attenzione di buona parte del pubblico, insensibile alle lamentele del povero Falstaff inzuppato d’acqua e tremebondo.