di Redazione
Ascolti Jonas Kaufmann e ti sembra di fare un salto indietro nel tempo. E non di poco, ma almeno di un secolo. Il discorso non riguarda lo stile, ovviamente, perché il gusto è così cambiato che non si possono fare paragoni, ma le caratteristiche vocali “al grezzo”, il colore, l’estensione, l’intonazione.
Chi scrive aveva da poco ascoltato questo nuovo disco della star tenorile bavarese quarantaseienne, quando si è imbattuto, su Radio 5 Fd, in una bella oretta di “omaggio” ad Aureliano Pertile, il tenore di Montagnana che debuttò al teatro Eretenio di Vicenza nella Martha di Flotow, anno di grazia 1911, ed è stato all’apice della carriera almeno fino alla seconda guerra mondiale, anche se più che altro in Italia e specialmente alla Scala. La “parentela” di Kaufmann emergeva nell’ampiezza della tessitura non meno che nell’evidenza di un approccio musicale mai generico e mai incline all’effetto fine a se stesso, per quanto incisivo fino a essere poderoso.
Poi, pochi giorni più tardi, uno spettacolo teatrale dedicato alla Grande guerra ha illuminato altre simili prospettive: come musica di scena c’erano infatti alcune celeberrime registrazioni d’epoca di Enrico Caruso, peraltro oggi facilmente a disposizione in Rete. Nelle quali, al netto dello strabiliante smalto dell’acuto (massime nella Pira del Trovatore), quello che si poteva apprezzare è un dato notorio e ampiamente analizzato e illustrato: la “presenza” nella zona bassa della tessitura, la corposità emozionante di quelle note, il velluto seducente del colore. Tutte caratteristiche che appartengono anche a Kaufmann.
Nell’era odierna, in cui per molti motivi la specie del tenore esangue ancorché raffinatissimo è sempre più ricercata e diffusa, complici le sinuose circonvoluzioni del repertorio, Kaufmann appartiene chiaramente alla genealogia di quei grandi del secolo scorso. E come quei grandi scorrazza in lungo e in largo – in scena e nelle registrazioni – nel “non picciol libro” dei titoli noti e meno noti di un genere che molto approssimativamente ma comunemente viene definito Verismo, e talvolta viene anche individuato con l’anagrafe dei suoi principali autori, la “generazione dell’80”. In sostanza, l’ultima età dell’oro del melodramma, prima del declino.
Bisogna riconoscere una certa abilità ai produttori della Decca nell’intitolare il disco di cui stiamo parlando The Age of Puccini. L’espressione è calzante, perché davvero il musicista lucchese fu nei decenni a cavallo fra Otto e Novecento, oltre le questioni di stile, l’indiscusso “dominus” della sua epoca, la “pietra del paragone” per qualsiasi operista, del tutto meritevole di diventare l’eroe eponimo di un’intera epoca. Bisogna aggiungere anche che l’incessante lotta sul mercato aguzza l’ingegno, perché il nuovo Cd così titolato è in pratica la riedizione di vari pezzi già registrati e pubblicati in un arco di tempo che va dal 2008 al 2013, in dischi come Romantic Arias, The best of Jonas Kaufmann e Verismo Arias, dal quale ultimo discende il grosso di questa nuova edizione, con l’orchestra dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia diretta da Antonio Pappano. L’uscita non è stata esente da una clamorosa polemica da parte dello stesso tenore, che quasi in contemporanea aveva fatto uscire Nessun dorma: the Puccini album per la Sony Classical (sempre con Pappano), e che non ha esitato a dichiarare pubblicamente che il Cd della Decca è stato realizzato senza che lo sapesse e senza la sua approvazione (scrive il New York Times). Così va il mondo discografico, oggi.
La track list è accattivante. Dopo l’Ouverture nel nome di Puccini, che agli inevitabili Che gelida manina e E lucevan le stelle, affianca una pagina dalla Rondine, si passa a Ponchielli, Boito, Mascagni e Leoncavallo. Del primo viene proposta anche una pagina della quasi sconosciuta opera I lituani; dell’ultimo anche la dolente, bellissima Romanza di Marcello (Testa adorata) dalla Bohème, che Puccini con la sua avrebbe spinto fuori dal ring operistico. E poi avanti, sempre più verso fine Ottocento e dentro al Novecento, con autori come Cilea, Zandonai e la sua Giulietta e Romeo, Giordano. Fino alla canzone Ombra di nube, che è datata 1935 e firmata Licinio Refice. Con l’eccezione delle piccole rarità segnalate, tutti sono “brani favoriti”, pezzi celeberrimi, cavalli di battaglia di ogni tenore. Kaufmann li percorre con sovrana maestria, unico nella capacità di coniugare il fascino del suo strumento vocale, con quella zona bassa da brividi, con una musicalità che si esprime in sottigliezze di fraseggio ammirevoli, in una pienezza di linea – dal canto a fior di labbra alla perorazione tragica – che esprime mille sfumature emozionali. Sono interpretazioni di profonda sensibilità, capaci di rendere giustizia agli autori dell’Età di Puccini, così spesso maltrattati da una vocalità senza arte né parte.
Pubblicato il 2015-10-30 Scritto da CesareGalla