Un classico del teatro contemporaneo, frutto della collaborazione tra Philip Glass e Bob Wilson, in unica tappa italiana
di Giampiero Cane
In Einstein on the Beach, che sorprese a Venezia quasi quarant’anni fa, frutto della collaborazione tra Philip Glass e Bob Wilson, di nuovo in Europa con una tournée con una sola tappa italiana a Reggio Emilia, si riconosce comunemente ormai un classico del teatro contemporaneo, un classico del teatro Usa che mescola nel proprio retroterra suggestioni da Walt Whitman e dal surrealismo.
Musica, scena e coreografia concorrono a immergere la pièce in un senso d’immobilità, o del cambiamento solo superficiale, che è nel mare d’erba, negli spazi e nei ritmi del green grass in una contemplazione che con Wilson diventa manierismo post-classico; del pari, la superficialità delle dissennate parole del libretto, che però, come tutti i vaneggiamenti, paiono essere lì lì per cogliere recondite, profonde verità, mostrano quasi un’invocazione alla comprensione: è una richiesta di senso rivolta dall’opera allo spettatore, speculare a quella che analoga gli giunge dall’informale. Sillabazioni ben cadenzate, monchi resti di frasi, litanie di numeri accompagnano un andare e venire che taglia geometricamente la scena, ma non viene da e non va a. Quanto al tempo è come l’orologio, oppure come il nostro (probabilmente) piccolo universo, che non inizia nel tempo, ma iniziando dà il via ad esso e allo spazio (se è così).
Questo balletto, la cui musica è prodotta da un’orchestra minuta e da un piccolo coro, è fatto di 3 scene e di quattro interludi. Il titolo non vuole dire nulla, come a niente che non sia astratto si riferisce tutto il resto. Una spiaggia non c’è e nemmeno Einstein; c’è però un violinista che esce dall’orchestra e si isola da essa, praticamente salendo sulla scena, il quale è truccato come lo scienziato filosofo. Suona il violino, ma non c’entra niente con l’azione, che del resto non c’è, se non ridotta ad aspetti minimi che forse riproducono qualcosa, ma non interpretano nulla.
Lo spettacolo dura 4 ore e mezza, «ma», come qualcuno annotava con sorpresa, «non annoia». Vien da pensare che se la noia dipendesse dalla durata, dovremmo essere stati vaccinati da Wagner; inoltre, le cose “vengono a noia”, dunque le stesse non l’hanno già causata; e infine la natura può essere tanto noiosa quanto l’artificio, dunque la noia non è oggettiva.
Qui, musicalmente la lezione di Bach è filtrata attraverso lo Czerny, con un po’ di scatole cinesi o di imprevisti incastri del puzzle, i quali, appena avvenuti, sono di nuovo già normalità. Scenicamente domina il classicismo versione Usa, che è luce e pulizia, disinteresse agli affetti, mimica della coazione alla perfezione raggiunta. La quale naturalmente è umana, dunque imperfetta.
Nello spettacolo non c’è nulla di impositivo, se non nella struttura del vecchio teatro che lo ospita. Considerato che gli spettatori potevano uscire e rientrare in qualsiasi momento, le file di poltroncine inamovibili risultavano scomode e inadatte.
La rigidità mentale dello spettatore medio si osservava anche in questa libertà di movimento: i più, usciti per qualche ragione, rientrando rivolevano proprio quel posto ch’era stato loro e che avevano lasciato.
© Riproduzione riservata