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Interviste • Grande interprete verdiano, cresciuto nella tradizione italiana e richiesto dai teatri di tutto il mondo, il cantante di Treviso ha alle spalle trent’anni di una luminosa e ponderata carriera che prese inizio con il debutto alla Scala
di Elena Filini
S ignorilità senza affettazione. Parole ponderate, frutto evidente di una vita professionale fatta di riflessione ed evoluzione, ma resa sapida dall’uso dell’ironia e da una sana vena gourmande. Roberto Scandiuzzi da un trentennio rappresenta l’exemplum di un campione vocale: la corda di basso nobile. L’artista, interprete verdiano per antonomasia, ha da poco terminato le repliche della Gioconda che ha chiuso la stagione 2011-12 all’Opera di Roma, per poi volare a Tel Aviv per Luisa Miller. Da alcuni anni ha fissato lontano da Treviso la sua residenza. Ma nella Marca gioiosa torna sovente a ritrovare affetti domestici e quella colloquialità veneta che gli ha sempre consentito di preservare la sua comune mortalità dagli eccessi del palcoscenico.
Maestro Scandiuzzi, Lei rappresenta forse il più significativo profilo di basso nobile di scuola italiana dell’ultimo trentennio. Qual è l’identità vocale di questa corda?
«La morbidezza, la qualità del fraseggio, l’accento, la linea. Sono cresciuto nel solco della tradizione italiana e posso dire di aver avuto una sola insegnante (il soprano Annamaria Bicciato) e alcuni padri putativi sotto il profilo vocale: primo tra tutti Cesare Siepi. Ma la mia formazione sarebbe stata lacunosa senza l’apporto di ottimi pianisti come Enza Ferrari, Ezio Lazzarini e, per i grandi ruoli verdiani, Tom Christoff. Ho sempre cercato la rotondità, ho consapevolmente rifuggito l’aggressività vocale: per me il basso nobile deve creare, attraverso l’eleganza e la qualità del timbro, un’aura di forza e stabilità».
Oggi assistiamo ad un progressivo distacco del direttore d’orchestra dalla conoscenza specifica delle necessità e delle problematiche riferite alla voce. Accade perché sempre meno direttori provengono dalla pratica di maestro sostituto?
«Posso dire che nella mia esperienza chi era in grado di dare soluzioni specifiche ai cantanti erano nomi quali Anton Guadagno, Giuseppe Patané, poi Nello Santi che amava ripetere “noi dobbiamo lavorare su una traccia e fare uscire il meglio di quanto suggerito. Sbaglieremmo ad attenerci alla virgola al semplice dettato della parte». Tra i direttori attuali invece sono straordinari pianisti Fabio Luisi e Antonio Pappano. C’era poi Marcello Viotti, che con la sua bella voce si divertiva a cantare tutte le frasi di basso. Gli altri direttori sulla scena attuale sono per lo più ottimi lettori ma raramente coscienti dell’esigenze dello strumento voce».
Al debutto poco meno che ventenne (alla Scala con Le nozze di Figaro sotto la direzione di Riccardo Muti), ha avuto la fortuna di partecipare a produzioni con cast stellari. Quali colleghi l’hanno influenzata di più?
«Renato Bruson mi ha insegnato l’allure in palcoscenico, Shirley Verrett il fascino di travolgere il pubblico. Era ipnotica, sicura, sapeva portare sempre la platea dalla sua parte. Di Alfredo Kraus mi hanno sempre colpito la signorilità e la sicurezza tecnica. Pensando invece ai colleghi della mia corda, cito con affetto e ammirazione Samuel Ramey e Ferruccio Furlanetto. Coloro che oggi godono il mio rispetto sono Carlo Colombara (che io considero il baritono scuro per eccellenza, alla Tagliabue) e Giacomo Prestia».
Si possono enumerare i suoi ruoli del cuore, quelli che per usare una metafora (mozartiana) le stanno come una veste al corpo?
«Credo che ogni centimetro della mia pelle conosca Fiesco (Simon Boccanegra), che ancora oggi considero il ruolo che mi sta meglio. Poi Forza del Destino e Messa da Requiem. E infine il ruolo di Dosifej, in Chovanščina, per il tipo di intensità psichica che richiede».
Quali, al contrario, le opere che ha dovuto lasciare?
«Un ruolo che mi è sempre piaciuto è Don Giovanni, ma il problema è sempre stato il cast da formare intorno a me. Credo poi che il mio Don Giovanni non sia oggi compatibile con le attuali esigenze registiche. Un’altra partitura che ho dovuto abbandonare con dispiacere è stata la Petite Messe Solennelle di Rossini».
C’è invece un ruolo che ha sempre considerato scomodo e le è invece toccato di cantare?
«Zaccaria. Lo canto e ultimamente piuttosto spesso, nonostante il modo in cui è scritto: il primo atto si canta nella tessitura di baritono, poi nella Preghiera è richiesta una pasta di basso scuro e alla fine nella Profezia Verdi ti piazza un fa diesis. In quella fase, il Beppino nazionale sapeva perfettamente come scrivere per il baritono, ma non aveva ancora quadrato il ruolo del basso. Pochi lo cantano volentieri».
Cresciuti nell’epoca in cui l’opera era ancora l’opera, noi oggi dobbiamo invece convivere a volte con ridicolaggini, con regie inverosimili
Dopo trent’anni di stimato servizio, ha elaborato una personale ricetta sulla resistenza in carriera?
«Gli strumenti per far durare una carriera credo siano due: anzitutto la solidità tecnica, intesa però come conoscenza del proprio strumento. La voce va capita ogni giorno, bisogna intenderne la luna, saperla portare, sorvegliarne costantemente le evoluzioni. E l’altra imprescidibile caratteristica è la saldezza di nervi».
Come vede cambiato il mondo della lirica nell’ultimo decennio?
«Non vorrei dire ciò che è scontato, cioè che mancano i soldi. Certo i flussi di denaro pubblico non sono più quelli di un tempo, ma il proncipale problema della lirica oggi ritengo sia il tentativo di svecchiare una cosa travisandone l’identità. È vero che l’opera è una cosa âgée, è vero che oggi può essere riverniciata con l’uso della tecnologia, ma non deve essere stravolta. Cresciuti nell’epoca in cui l’opera era ancora l’opera, noi oggi dobbiamo a volte convivere con le ridicolaggini. Intendo dire sottostare a regie inverosimili, come capitò a me con il Macbeth di David Pountney a Zurigo. Io credo che queste operazioni facciano male alla cultura operistica. Se il lato visivo non aiuta la comprensione, non credo che il pubblico rimarrà per tanti anni affezionato ad una forma di spettacolo che tra l’altro gli costa molto».
Il problema sono solo i registi o piuttosto direzioni artistiche non sempre competenti o autorevoli?
«Se facciamo un discorso ampio sullo svecchiamento dell’opera non possiamo tacere che oggi le direzioni artistiche sono blindate e tenute per lo più da over 65. Lo svecchiamento dovrebbe partire anche dei vertici. Dopo i 65 anni sarebbe giusto che personalità di grande esperienza potessero collaborare in forme di consulenza, dando la possibilità di assumere il timone ai molti quarantenni con profili professionali ragguardevoli ed energeticamente più pronti che sono oggi relegati in subordine».
Nella sua carriera esistono alcuni teatri ai quali è legato da particolare affetto?
«Ho un affetto particolare per tre teatri: La Fenice di Venezia, il Comunale di Firenze e l’Opera di Roma che, come spesso ripeto, avranno sempre una corsia preferenziale per me. I miei primi dieci anni di carriera sono stati lì, questi teatri hanno rappresentato il mio terreno di crescita. Roma mi ha dato il primo Don Carlo nel 1989 con Gustav Kuhn, Venezia il Simon Boccanegra, Firenze Chovanščina. All’estero mi sento invece particolarmente legato a Monaco».
Lei ha una figlia cantante, il soprano Diletta Rizzo Marin. E negli ultimi anni ha iniziato a tenere masterclass. Una nuova destinazione professionale o solo il desiderio di mettere in sicurezza e trasferire il patrimonio accumulato in trent’anni di attività?
«Trovo l’insegnamento uno stimolo a rinnovarmi ed insieme un repêchage continuo di quel che ho imparato. I ragazzi oggi hanno una grande conoscenza in campo vocale e sono molto critici. Una volta si era più passivi. Insegnare è motivo di esame costante. E in più c’è lo stimolo a capire anche lo strumento più difficile e provare ad applicare delle formule soggettive».
Qual è la sostanziale differenza tra oggi e i tempi del suo debutto?
«L’unica vera differenza è che oggi le possibilità di lavoro sono limitatissime. Il territorio è esageratamente invaso per giustificazioni economiche (spesso di facciata) da fette di mercato che potrebbero anche essere evitate. C’è oggettivamente la moda dell’Est che immette un serbatorio illimitato di voci sane, importanti ma stilisticamente più che discutibili. Temo che questa vague sfinisca il mercato di voci europee».
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