«Volevo che il pubblico e la giuria non mi giudicassero come “competitor” bensì come pianista». Recentemente insignita della medaglia d’argento al concorso Van Cliburn l’interprete italiana risponde alle nostre domande
di Mario Leone
Può raccontarci brevemente l’esperienza al concorso Van Cliburn? Cosa resta dal punto di vista umano e musicale dopo un’esperienza ed un’affermazione di tale portata?
«È difficile riassumere il Cliburn in poche righe, ma posso dire con certezza che è stata una delle esperienze più intense che ho vissuto fin’ora: non solo dal punto di vista musicale, dovendomi confrontare giornalmente con altri pianisti eccellenti e diversissimi fra loro, ma anche – e soprattutto – sotto il profilo psicologico, essendo sottoposta ad una pressione mediatica incredibile per tutta la durata del concorso. Sicuramente ho imparato moltissimo da questa esperienza, perché ho avuto modo di suonare ben sei volte nell’arco di due settimane su uno dei palcoscenici più autorevoli per il mondo pianistico e ho avuto l’opportunità di essere affiancata da ottimi musicisti come il quartetto Brentano e il direttore Leonard Slatkin».
Nel programma presentato al Concorso vi è una corposa presenza delle musiche di Robert Schumann. Questa scelta indica un particolare amore per il compositore tedesco?
«Non nascondo una particolare affinità con Schumann, ma la presenza della sua musica in tre prove è stata in realtà una naturale conseguenza del mio approccio alla formulazione del repertorio per il concorso. Ho da fare una premessa, e cioè che non ho mai partecipato a molti concorsi nella mia vita e, quando vi ho partecipato, non l’ho fatto per la competizione fine a se stessa ma perchè vedevo nel concorso un’opportunità per avere concerti. È con lo stesso spirito che ho affrontato il Cliburn: volevo che il pubblico e la giuria non mi giudicassero come “competitor” bensì come pianista. Da qui deriva la mia scelta di suonare due composizioni schumaniane nei due recital della prima prova: prima di tutto per una sensazione di continuità – come si farebbe fra prima e seconda parte in un concerto –, e poi per una questione stilistica, essendo le Variazioni Abegg e gli Studi Sinfonici le due uniche opere in forma di variazione scritte da Schumann. Quanto al Quintetto, è forse uno dei lavori di musica da camera che amo di più, e non potevo perdere un’occasione del genere per suonarlo con dei musicisti come il quartetto Brentano».
C’è una figura particolarmente significativa nel suo percorso musicale e umano?
«Senza ombra di dubbio i miei insegnanti Benedetto Lupo e Arie Vardi. Ho avuto la fortuna di studiare con Benedetto Lupo per otto preziosissimi anni, e ancora oggi è il mio punto di riferimento. Oltre ad essere un musicista straordinario, credo che sia una delle poche persone in grado di insegnare veramente il mestiere del pianista. È un esempio di onestà e integrità intellettuale. Da due anni studio con Arie Vardi alla Musikhochschule di Hannover e, nonostante l’approccio alla lezione sia totalmente differente da quello di Lupo, ne traggo ugualmente ispirazione. L’opportunità di studiare con un grande mentore come Arie Vardi mi permette non solo di beneficiare di tanti anni di esperienza e di conoscenza, ma anche di avere nuovi e affascinanti punti di vista sul repertorio pianistico e non».
Quali sono i suoi progetti futuri e quelli più imminenti?
«Spero che questa affermazione mi permetta di fare quello che ho sempre sognato di fare: suonare nelle sale da concerto e condividere la musica con quanta più gente possibile. In un progetto a lungo termine, spero di avere la possibilità di lavorare e confrontarmi con ottimi musicisti, uno degli aspetti a mio parere più stimolanti dell’essere in carriera.
Parlando più nell’immediato, mi auguro di poter ampliare il repertorio, continuare a studiare ed allo stesso tempo costruire una bella attività concertistica».
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