L’opera in prima italiana al teatro Comunale. La regìa è di Jurgen Flimm e la direzione musicale di Marco Angius
di Giampiero Cane foto © Rocco Casaluci
Forse perché… Non direi sia il caso di iniziare così, anche se ogni incipit è un po’ un problema. Ma c’è qualcosa di elementare e chiaro che può essere detto subito: la scorsa settimana, al Comunale di Bologna, è andata in scena per la prima italiana una pièce di Salvatore Sciarrino, Luci mie traditrici, la cui prima rappresentazione, ovviamente all’estero, risale alla fine degli anni Novanta. Che cos’è? A mio parere un faticoso incanto sulla vicenda di un comportamento oggi piuttosto di moda, un uxoricidio (un femminicidio, ho la vaga impressione che dovremmo scrivere, forse per legge) l’assassinio della fedifraga moglie di Carlo Gesualdo, principe di Venosa, una d’Avalos, credo commissionato, e direi quasi d’obbligo, o senza quasi, nel costume dell’epoca. Che oggi sia un po’ tutto diverso è ipotizzabile. Certo, “la sindrome d’Otello” fu per anni utilizzata per supplire all’inesistenza del divorzio, ma oggi? I matrimoni combinati probabilmente esistono ancora e forse sono quelli meno tormentati da questioni sentimentali. Però…
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Mettiamo anche solo che uno rientri in casa sua e la veda sconciata da gentaglia che… Il primo sentimento è di schifo: la micro-criminalità esiste solo per chi non subisce il crimine. Per le vittime è semplicemente criminalità, dalla quale non ci si può difendere se non dopo averne subito l’azione (e anche in questo caso è da vedere). Carlo Gesualdo, la cui famiglia ch’era potente, ma con lui s’estinse, amava la musica come bellezza e forse la bellezza come musica. Sembra non fosse un damerino, oggi si direbbe più facilmente un ficaiolo, ma sposò una donna di rango equivalente. Era una cosa combinata, per lui probabilmente priva di altri significati. Probabilmente lei sarebbe giunta a dargli un figlio, a un certo punto, e bona lì, come si dice in Emilia nel parlato. Infatuatasi di un Carafa, altro nome di rango, la “scemotta” andava in giro senza occuparsi che la cosa rimanesse per così dire nascosta.
A questo punto a Carlo gli toccò: assoldato uno scherano, fa sì che entri nella camera da letto dove i due stan facendo pee wee (come un tre secoli dopo si sarebbe detto in musica). Secondo i suoi ordini, i cadaveri furono gettati in strada, davanti al casa Gesualdo e Carlo “fuggì”: cioè si ritirò a Venosa, nell’avito castello dove se ne stette in guardia perché i d’Avalos e i Carafa messi insieme avrebbero potuto essere un gran problema per lui, che però da parte materna era un Borromeo. Qui ha una botta di genio: se com’è probabile non conosceva Shakespeare, non poteva nemmeno conosce il Macbeth, ma poiché non sa come reagirà il potere vaticano e sta aspettando di sapere come l’han presa in Trastevere, fa tosare la foresta o boscaglia che fosse lì d’attorno al suo castello, onde evitar sorprese. Poi non succede niente, tutto viene appianato e, dopo solo quattro anni dal femminicidio per commissione, Carlo Gesualdo, uno dei massimi musicisti del Seicento è a Ferrara, per lui una capitale della musica perché alla corte estense vive (e lavora) Luzzasco Luzzaschi, ritenuto eccelso contrappuntista (figurarsi se a Carlo interessava qualcosa delle corna).
A Salvatore Sciarrino, che scrive il suo proprio libretto, questa storia direi interessi poco. La sua vicenda non ha racconto ed è diversa da come la si apprende dalla storia. Oltretutto s’interrompe con la morte di lei. Anche l’amante lo scorgiamo morto nel finale, ma non veniamo a sapere chi l’abbia ucciso. Di quel che seguì nei fatti, con Carlo che sposa a Ferrara Eleonora d’Este, nipote del duca Alfonso, che s’interessa di più a Tasso e al Luzzaschi che a lei, che se ne torna a Napoli, lasciandola lì dove l’aveva trovata, che scrive splendidi madrigali che restaurano il cromatismo e il primato del canto, contro gli arzigogoli di un gusto colto quasi enigmistico, Sciarrino come librettista non si occupa.
Forse potremmo dire di Carlo Gesualdo anche che riporta il canto in primo piano, e così di Sciarrino che ne fa il cuore della composizione musicale, ma è un canto molto distante dalla tradizione operistica ottocentesca, e però esso è a fondamento della musica. Come ha detto il compositore, qui gli strumenti ruotano attorno al canto. Egli è musicista capace di velature sentimentali efficacissime: diremmo che sia notturno e mascherato, cioè non esplicito.
Qui, in Luci mie traditrici lo aiuta una drammaturgia che rifugge da figure a tinte forti. E’ uno stile tutto vestito quel che giunge dal palcoscenico; è uno stile che gode del suo essere decaduto. I corpi degli attori trasmettono solo incertezza e fragilità. Uscendo dalla sala, il foyer e poi la piazza sorprendono nella loro indifferenza, per il fatto che continuino la propria storia di banalità.
Il gusto della messa in scena è proprio classico tedesco, ti fa venire alla mente il primo Schoenberg libero dalle determinazioni che s’era auto imposto, quello diciamo di Dall’Oggi al Domani, clima alto-weimar, forse con un filtro debussiano. La regìa è firmata da Jurgen Flimm, professionista di solida fama. Marco Angius, che ha diretto anche l’unica edizione discografica di quest’opera (Stradivarius) ce l’ha tanto familiare che sembra assente. I difficili equilibri auratici gli riescono con efficacia immediata. Lo spettacolo nell’insieme visivo e sonoro non è facilissimo, ma capace di catturare l’attenzione. Certo, chi cerchi i do di petto non potrà che aspettare una diversa occasione. Sul palcoscenico agiscono cantanti che sono tutti bravi attori, non come le grandi voci della tradizione, quei tenori di cui si è costretti a dire che san fare una cosa sola per volta, o si muovono o cantano. Anche sotto questa prospettiva le donne in generale sono un po’ migliori.
Qui rispondono ai nomi di Katharina Kammerloher (La Malaspina, ovvero Maria d’Avalos) e di Lena Haselmann (L’Ospite, ovvero il Carafa, per il quale diremmo utile un richiamo al Klossowski de Le Leggi dell’ospitalità), di otto Katzameier (Il Malspina, cioè Carlo Gesualdo) e Christian Oldemburg (il Servo). Non in scena, cantano anche Chiara Alberti, Diego Bolognesi, Pietro Bolognini, Susanna Boninsegni, Marco Conti, Eleonora Dodi, Giorgia Puglisi e Olivia Scaglarini. Alla prima, martedì scorso, c’era in teatro un pubblico abbastanza consistente, che ha applaudito a Lungo. Durante lo spettacolo sono stati pochissimi quanti si sono furtivamente allontanati.
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