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The Tempest di Adès a Milano

Foto © Brescia e Amisano

di Gianluigi Mattietti
27 Novembre 2022
in XX e XXI
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Home XX e XXI
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di Gianluigi Mattietti

Adès ha conquistato il pubblico della Scala con un’opera ben collaudata come The Tempest, annunciata già per la stagione 2013-14 poi rinviata ad oltranza. Presentata per la prima volta alla Royal Opera House nel 2004, con grande successo (il Guardian la paragonò al Peter Grimes), l’opera andò poi in scena a Copenhagen e Strasburgo nel 2005, a Santa Fe nel 2006.

Nel 2007 fu ripresa al Covent Garden, quasi con lo stesso cast della prima, e nel 2012 è approdata al Metropolitan di New York con la regia di Robert Lepage. È proprio quell’allestimento (consacrato anche dal dvd Deutsche Grammophon) che è stato ripreso alla Scala, creando un effetto straniante, perché tutta la scena riproduceva il Piermarini inquadrato da diverse prospettive. Lepage aveva infatti immaginato Prospero come una sorta di Fitzcarraldo che vuole ricreare su un’isola deserta il teatro d’opera della sua città, cioè la Scala, e che muove gli altri personaggi come fosse il regista di una produzione operistica. Sfruttando Ariel come prezioso aiuto-regista. Fondamentale, in questa lettura insieme metateatrale e magica, è stato l’apparato scenico di Jasmine Catudal, dove la sala veniva inquadrata da tutte le angolazioni (anche di lato nel terzo atto, con proscenio, sottopalco e la platea in pendenza, sezionati come in un modellino architettonico); dove alcuni “trucchi” teatrali, che sembravano magie di Prospero, permettevano rapidissimi cambi di scena (sempre nel terzo atto, una grande impalcatura riproduceva il fondo del palcoscenico e poi, in pochi secondi, facendo scendere una quinta traforata, si trasformava in una serie di palchetti vellutati); dove fondale, palcoscenico, quinte, palchetti e anche la buca del suggeritore, diventano altrettanti passaggi dai quali entravano e uscivano di scena i personaggi. I costumi di Kym Barrett erano giocati sul contrasto estremo tra l’eleganza ottocentesca dei naufraghi e l’aspetto selvaggio e stravagante degli abitanti dell’isola: Prospero ricoperto di tatuaggi, con un mantello trasandato sulla spalla, Miranda come una principessa maori, Calibano imbrattato di pece, Ariel con un fastoso costumino di strass. In questo spazio scenico tutti i personaggi si muovevano con grande naturalezza, sfruttando bene alcuni giochi illusori (una controfigura prendeva il posto di Ariel nelle scene più acrobatiche), ma sempre mirando alla massima chiarezza narrativa, anche con qualche eccesso didascalico, come le pantomime nel palco reale durante il racconto di Prospero a Miranda.

A differenza di Powder her Face, The Tempest è un’opera di facile lettura, sia dal punto di vista drammaturgico che musicale, che recupera gli ingredienti più tradizionali del melodramma. Il libretto di Meredith Oakes, che semplifica molto la trama shakespeariana (condensando l’azione iniziale, elimina molti personaggi secondari, e risulta molto ritmato, anche pieno di rime e allitterazioni), appariva perfettamente funzionale a una partitura eclettica, dalla scrittura virtuosistica, ma interamente costruita su una cellula generatrice (un intervallo di quinta seguito a una seconda maggiore, presentato in infinite varianti e permutazioni), con complesse trame contrappuntistiche, con un frequente ricorso al canone, con impertinenti mescolanze di stili musicali diversi, con un’elaborata scrittura ritmica che rendeva il discorso musicale flessuoso e imprevedibile, sapientemente guidato nella direzione dello stesso compositore. Anche se ha adottato forme tradizionali dell’opera, come arie, recitativi e concertati, Adès ha utilizzato le voci come parti di un grande orchestrazione, prediligendo quelle tenorili (per Calibano, Ferdinando, Antonio e il re di Napoli), e modificando il tradizionale rapporto melodia-accompagnamento, perché l’orchestra si legava strettamente alle linee vocali, con ombreggiature ritmiche e timbriche, o con lunghe sequenze di accordi paralleli. Prospero, privo una vera e propria aria ma presente in quasi tutte le scene (spesso con dei monologhi conclusivi), era interpretato dal baritono Leigh Melrose, che sfoggiava un fraseggio espressivo e si destreggiava bene nei ruvidi declamati, anche se mancava di sonorità nel registro grave e della personalità di Simon Keenlyside nell’allestimento newyorkese.

La pirotecnica parte di Ariel, che si spingeva fino al sol sovracuto, era affidata all’esperta Audrey Luna, agile vocalmente e scenicamente, perfetta nel rendere il carattere insolente, immateriale, asessuato di questo personaggio. Per la parte di Calibano (originariamente scritta per Ian Bostridge), il tenore Thomas Ebenstein ha sostituito all’ultimo momento il titolare Frédéric Antoun, che però ha recitato in scena, cogliendo, dietro le movenze da scimmione irsuto, il lato sentimentale del suo personaggio, capace di meravigliarsi, di amare, di cedere al potere incantatorio della musica. La coppia Ferdinando e Miranda, che rappresentava il nucleo lirico dell’opera, e l’amore che scardinava i meccanismi della vendetta e lo stesso potere della magia, era affidata alla voce fresca e incantata di Josh Lovell, e a quella morbida e avvolgente di Isabel Leonard. Notevoli anche Toby Spence (che al Metropolitan interpretava Antonio), nei panni del re di Napoli sempre dignitoso anche nel dolore e nella disperazione; il basso Sorin Colbran, un’autorevole e tonante Gonzalo; l’affiatata coppia comica di Stefano e Trinculo, interpretati da Kevin Burdette e Owen Willetts.

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Gianluigi Mattietti

Gianluigi Mattietti

Docente di Storia della musica all'Università di Cagliari, autore di saggi e studi sulla musica del Novecento e contemporanea, collabora come critico musicale con le riviste Amadeus, The Classic Voice, Musica, Il Giornale della Musica, Golem informazione, Il Corriere Musicale.

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