di Redazione

cominatiL’interesse per la trascrizione pianistica delle musiche dei grandi maestri del passato fu, per varie ragioni che non è possibile qui riassumere, motivo tipico di tutto il secolo XIX. Ora, che il passato rappresentasse di per sé un interesse centrale per l’uomo dell’Ottocento è cosa ben nota: una mania (accompagnata da una necessità) di riscoprire e studiare testi e documenti di quel Medioevo che gli umanisti toscani avevano fieramente stigmatizzato portò a un nuovo decisivo sviluppo nella formazione delle moderne discipline storiche e filologiche, ed ebbe pure un ruolo primario, facendo leva su una storia talvolta piegata alle proprie esigenze, nella costruzione di un sentimento nazionale, ché il patriottismo che sarebbe poi degenerato in nazionalismo non è che uno dei tanti prodotti sviluppatisi in seno alla cultura romantica.

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Ad ogni modo, si accennava, l’Ottocento fu secolo di generosi trascrittori, i quali se da una parte guardavano ovviamente alle auctoritates, alla tradizione, dall’altra non disdegnavano i protagonisti del loro tempo: nel novero di chi praticò quest’arte spicca ovviamente Franz Liszt, che ci ha lasciato un profluvio di trascrizioni e rielaborazioni da Bach, Mozart, Beethoven, senza per questo trascurare i protagonisti del suo tempo e più in generale del suo secolo (la lista è lunghissima e comprende, com’è noto, rielaborazioni da brani e opere di Bellini, Donizetti, Glinka, Gounod, Mercadante, Nicolai, Verdi, Wagner e altri ancora). Trascrizione che significa al tempo stesso rielaborazione di dati, adattamento al nuovo strumento (un pianoforte le cui potenzialità andavano ormai consolidandosi) e conquista di una nuova sensibilità, espressione di una poetica inedita che però ricava dalla tradizione suggestioni e temi allora percepiti come necessari. Sono tutti elementi che ritroviamo nell’ultimo disco che il talentuoso pianista napoletano Roberto Cominati ha registrato per l’etichetta tedesca Acousence classics, Bach & Händel transcriptions for piano, dove appunto Cominati, la cui carriera internazionale prese avvio nei primi anni Novanta allorché vinse il Casella di Napoli e pochi anni appresso il Busoni di Bolzano, interpreta Bach e Händel attraverso la lente d’ingrandimento di alcuni autori vissuti durante il cosiddetto «secolo lungo» o a cavallo tra il XIX e il XX (con l’eccezione di Wilhelm Kempff) tra i quali non potevano mancare il già citato Liszt e il nostro Ferruccio Busoni, che del primo si sentì idealmente discepolo e sul cui rapporto con la trascrizione avremo modo di ritornare.

Il disco, la cui prima parte è dedicata alle trascrizioni da Händel e la seconda a quelle da Bach, si apre con la splendida Ciaccona in sol maggiore (HWV 435) rielaborata da Eugen d’Albert (1864-1932) e sin dapprincipio il contrasto ma anche l’incontro tra “pianismo virtuoso” (concetto, quasi superomistico, tipicamente ottocentesco) e i motivi rococò emerge in tutta la sua peculiarità, rapporto peraltro non di semplice gestione per l’interprete, che in questo caso mostra sapienza nel rispetto dell’equilibrio delle parti. Tutto ciò vale anche per quanto riguarda la Sarabanda e Ciaccona che Liszt rielaborò dall’Almira händeliana, e sono sufficienti poche battute per poter riconoscere lo stile dell’autore delle Années de pèlerinage o della Sonata in si minore. Spiace invece ravvisare, nell’interpretazione di Cominati sull’aria più celebre del Rinaldo (Lascia ch’io pianga), talvolta una nebulosità che fa perdere di vista la limpida robustezza del brano, qui proposto nella rivisitazione che ne fece Moritz Moszkowsky, tra i non pochi artisti che, nati in territorio un tempo germanico, furono poi detti e quindi creduti culturalmente polacchi per le successive manovre diplomatiche e geopolitiche (come se Garibaldi, nato in quella Nizza all’epoca italiana e poi ceduta alla Francia da Cavour, potesse essere considerato oggi non già italiano, ma francese!).

Ma per tornare al nostro Rinaldo, se Cominati non riesce forse pienamente nell’intento di trovare un raccordo tra l’armonia originale händeliana e la relativamente audace invenzione melodico-armonica di Moszkowsky, ciò è forse in parte anche da imputare all’eccentricità qui mostrata dal trascrittore, a un esotismo manifesto peraltro anche altrove – come nel Concerto op. 59 – e dunque a soluzioni che forse poco sanno dialogare con le atmosfere händeliane: se nelle trascrizioni di Liszt è manifesto l’incontro e lo scambio tra il trascritto e il trascrittore, qui Moszkowsky sembra tendere non già a un’evoluzione poetica e strutturale coerente rispetto all’originale di Händel, quanto un brusco stacco senza ritorno dove gli elementi non sempre appaiono riconducibili a una visione comune.

Veniamo ora alla seconda parte del disco, dunque alle rielaborazioni da J.S. Bach. Nella scelta di Cominati non poteva mancare Busoni, di cui il pianista napoletano propone la rielaborazione della Ciaccona in re minore tratta dalla Seconda partita per violino (BWV 1004), probabilmente il contributo busoniano più noto in tal senso. L’interesse per la trascrizione era per Busoni profonda: non pago di praticarla ad abundantiam, avvertì pure l’esigenza di scriverne, cosa che fece in alcune pagine berlinesi del 1910. Egli ben sapeva che la trascrizione risultava tanto più efficace quanto più forte era la figura del trascrittore: «Quando si trattava di personalità deboli», affermò, «queste trascrizioni diventavano deboli riproduzioni di un originale più potente». Non a caso stimava eccezionalmente le rielaborazioni di coloro che apparivano ai suoi occhi i due trascrittori per antonomasia, Franz Liszt e Johann Sebastian Bach, da cui per sua stessa ammissione Busoni medesimo apprese «che una musica buona, grande, ‘universale’, resta la stessa qualunque sia il mezzo attraverso cui si faccia sentire».

L’interesse di Busoni per Bach e per la trascrizione da Bach va comunque inquadrato in un’epoca di rinnovato interesse e poi di particolare fortuna (sino forse all’esasperazione) per la musica del grande Turingio, che culminerà tuttavia soltanto negli anni Ottanta del Novecento con l’affermarsi di una nuova agguerritissima filologia. Anche in questa Ciaccona, come in lavori consimili, l’arte di Busoni emerge in tutta la sua potenza, ché egli avrà pure indugiato, talvolta, in «esibizionismo neobarocco» (Glenn Gould), ma è d’altra parte «forse il compositore e la personalità artistica più sottovalutata dell’intero ventesimo secolo» (Edward Said). Tuttavia non al solo Busoni Cominati si è rivolto: sicché la “solita” Toccata e fuga in re minore (Bwv 565) è qui proposta, tra le varie possibili, nella versione di Ignacy Friedman. È probabile che la trascrizione di Friedman dové provocare, «nei conoscitori dell’opera organistica intera, scatti di stizza simili a quelli che Beethoven provava per la schiacciante popolarità di pagine sue ch’egli giudicava minori» (Piero Buscaroli). Quale che sia il giudizio in merito, fatto sta che rimase piuttosto aderente all’originale ma sfruttò il pianoforte per ricreare e anzi rafforzare la tensione drammatica del brano. L’idea che se ne ricava ascoltando l’interpretazione di Cominati è dunque quella di un’ambivalenza di stampo organistico da una parte (la cui solennità, specie nella Toccata, viene assolutamente rispettata) e pianistico nel senso più genuino, più elastico e più timbrico.

Nel complesso un lavoro di qualità, dove i limiti di Cominati sembrano essere piuttosto, qua e là, i limiti di alcune delle trascrizioni proposte. Ma anche in questi casi il nostro interprete ha tentato, complessivamente con successo, di riesumare o addirittura di creare egli stesso una trama interna ai vari brani.

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Pubblicato il 2016-12-19 Scritto da MarcoTesta

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