Il musicista lituano allo Stresa Festival per Meditazioni in Musica interpreta l’integrale delle Suites per violoncello
Forse a qualcuno potrà sembrare fuori luogo citare Baudelaire a proposito di Bach. Il rischio è certamente alto. Il poemetto XXXII di Le Spleen de Paris si intitola Le thyrse ed è dedicato à Franz Liszt.
[twocol_one]Il rischio è addirittura doppio: Baudelaire, il flâneur e poeta maledetto, che si lancia in una funambolica visione della musica di Liszt può essere mezzo efficace per commentare Bach? In ogni caso, il Poeta dice: «Cos’è un tirso? In senso poetico e morale è emblema sacerdotale […]. Ma fisicamente non è che un bastone, un semplice bastone asciutto, duro e diritto. Intorno a questo bastone, in capricciosi meandri, si sfrenano e folleggiano bocciuoli e gambi, quelli penduli come campane o coppe rovesciate, gli altri sinuosi e fuggiaschi. Ed una gloria estatica sprizza da quella complessità di linee di colori teneri o fiammanti. […] Il bastone è la vostra volontà diritta, ferma e incrollabile: i fiori il vagabondare della fantasia intorno alla volontà […]. Linea diritta e arabesco: intenzione ed espressione, tensione della volontà, sinuosità della parola, amalgama onnipossente e indivisibile del genio: quale analista sottile avrà il detestabile ardire di dividervi e di separarvi? […]».La mente va soprattutto ai lavori [/twocol_one]
[twocol_one_last]puramente strumentali, come le sei Suites per violoncello, di cui si dovrà parlare, e le Sonate e Partite per violino. La lingua di Baudelaire è la traduzione esatta di una sensibilità esasperata e acutissima che, se non si addice all’immagine di Bach in quanto compositore geometrico, coglie bene almeno un’idea: quella di una volontà ferma e asciutta, che diventa “luminosità dell’indicazione lineare” (Buscaroli), e quella del fiorire della fantasia attorno ad essa. Bach stesso è il tirso: il suo volere “diritto”, la sua retta inclinazione coincide con un tipo di scrittura severa perché sistematica, ma mai chiusa alla “cordialità e all’effusione”, verso “l’inerpicarsi nelle più ardue vie della difficoltà strumentale e intellettuale” (Buscaroli). Il paragone può apparire alquanto bizzarro se si pensa alla produzione bachiana pre-Cöthen, quella cioè più propriamente chiesastica, che richiedeva severità e solennità grandiosa. Architettura possente che non conosce scalfitture, sempre abisso profondo di commovente ispirazione.[/twocol_one_last]
Alla corte del giovanissimo Leopold, Bach si trova, invece, libero dagli impegni compositivi legati alla liturgia luterana. Cöthen non solo è calvinista, ma il suo principe, provetto musicista, mantiene un’orchestra non numerosa però di buonissimo livello. Non una Hofkapelle ma un Collegium Musicum. In questi anni il Maestro si dedica con serenità ai cicli strumentali: i Concerti, le Ouvertures, le raccolte per violino solo e accompagnato, per violoncello, per viola da gamba, flauto e liuto.
Ecco, appunto, le Suites per violoncello. Mi piace richiamare ancora Piero Buscaroli che, nel suo eccellente quanto ponderoso lavoro su Bach, dice parole giustissime a questo proposito e mi viene in aiuto: «Nulla, nell’intera opera di Bach, è più “barocco”, nello spirito di questi dodici pezzi [le sei suites e le sei Sonate e Partite], in cui la musica fa sua l’essenza figurativa di un’età che, rifiutando i confini tra i generi e le arti, assegna alla prospettiva di continuare, con l’illusione, la reale apparenza degli ordini. Sentimento dell’essere e vertigine del divenire si svolgono in continuità implacabile. […] [sulla sesta suite] l’alternarsi con cui il violoncello risponde a se stesso sul piano armonico e tonale da un lato, e, dall’altro, i rimandi dei gravi e degli acuti, traggono da queste dodici centinaia di note uno spessore architettonico che, per essere un’illusione si impone con una realtà sbalorditiva. Non è solo facciata, è un corpo completo, provvisto di profondità e di volume, di chiari e di scuri, di presenza e di sogno».
E per questo prima aggiunge:
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«L’esecutore deve sapere indicare al tempo stesso, col suo arco, la luminosità dell’indicazione lineare o la penombra della virtualità suggerita», cioè quella «polifonia latente» che «si attua in una serie di memorie differite, di rimandi e di echi sulla distanza […]».
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Allo Stresa Festival, da diversi anni, l’esecuzione delle sei Suites per violoncello è un rito. Ogni estate, per i devoti appassionati, è la curiosità per una nuova interpretazione di questa “augusta concezione organizzativa e architettonica del pensiero umano” (ancora Buscaroli), cui la piccola chiesa dell’Eremo di Santa Caterina a Leggiuno aggiunge un fascino arcano, un’atmosfera che è oramai familiare ma sempre austera, che impone compunzione nell’aspettazione.
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David Geringas è stato il protagonista di quest’anno, insieme a Bach naturalmente. Due serate complementari che si dividono i sei brani fra pari e dispari, secondo una logica spesso adottata perché consente di cogliere la simmetria della struttura delle singole suites e parimenti sottolinea l’equilibrio nell’alternanza dei modi maggiore e minore.
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Geringas, uno dei più importanti violoncellisti viventi e definito da Rostropovich come “suo erede”, è oggi un signore di una certa età. Di origine lituana, oltre ad essere violoncellista di fama è anche direttore d’orchestra. Nella sua carriera ha dato spazio, e continua a darne, ad un repertorio molto ampio. Tra i numerosi lavori delle avanguardie russe e lituane, che spesso ha eseguito per la prima volta in occidente, stanno pure i capolavori del primo e del pieno Barocco. Una vita al servizio della musica, nello sforzo di diffondere, vincendo le resistenze tradizionaliste, un’idea della esperienza sonora che sia la più estesa possibile, capace di abbracciare Dutilleux, Pfitzner, Gubaidulina come Bach o Boccherini.
Un uomo, un musicista energico e cordiale allo stesso tempo, rispettoso ma deciso. La sicurezza colpisce, disinvolta e consumata; così l’abilità e la velocità leggera con cui si sposta lungo la tastiera del suo Guadagnini (1761) sono notevolissime. La tecnica più che consolidata abbraccia un’interpretazione personale, nella quale il bagaglio ricco delle esperienze musicali è fondamentale. Pochi indugi agogici, molto moderato l’uso del vibrato, l’esecuzione è spedita e procede in modo vigoroso per rallentare nei momenti che la musica sembra suggerire più raccolti, intimi: Preludio della seconda suite e Sarabanda hanno un’aria drammatica e quasi “romantica”. Geringas mostra una particolare sensibilità per questa danza dal carattere solenne. Lo stesso i Preludi della quinta e della terza hanno un suono ricco e un piglio sicuro. Sempre elegante il gesto dell’arco anche nei passi di maggior forza dinamica. Il tocco è dolce e delicato nell’Allemanda della terza e della sesta suite.
Per l’esecuzione di quest’ultima Geringas preferisce, ossequioso e attento, fare un cambio di strumento. Poiché infatti la suite fu concepita per un violoncello a cinque corde, che era talvolta usato ai tempi di Bach, Geringas utilizza una copia moderna del Guadagnini settecentesco, ma con cinque corde, appunto. La differenza è immediatamente percepibile nel timbro e nel volume del suono, che consentono certo un risultato brillante per questi brani così vivaci nel loro virtuosismo.
Anche se l’immagine iperbolica del tirso di Baudelaire si adatta assai meglio e senza dubbio a Liszt che a Bach, le suggestioni di questa musica possiedono il potere naturale di raggiungere la vertigine, quando siano interpretate da un artista degno di questo nome. David Geringas lo è stato e lo è.
Laura Bigi