[wide]
[/wide]
Philarmonia Orchestra con la direzione di Esa-Pekka Salonen per un programma tutto beethoveniano; Bachakademie Stuttgart con la bacchetta dello specialista Helmuth Rilling nella Passione secondo Matteo di J.S.Bach
di Attilio Piovano
C hiusura di MiTo sul versante torinese, nel segno di Beethoven e Bach. Del primo si sono ascoltate la «Pastorale» e la «Quarta Sinfonia» nell’interpretazione di lusso della Philarmonia Orchestra per la direzione di Esa-Pekka Salonen, al Lingotto lo scorso giovedì 20 settembre, mentre è stata la sublime «Passione secondo San Matteo BWV 244» a chiudere questa VI edizione del Festival che unisce idealmente i due capoluoghi, piemontese e lombardo, sabato 22 al Regio: a cura della Bachakademie Stuttgart e per la direzione dello specialista Helmuth Rilling. Della «Pastorale» il finlandese Salonen – gesto molto elegante ed ampio, sempre funzionale al risultato sonoro – ha dato una lettura molto sobria e composta, a dispetto di un organico davvero vasto (con ben otto contrabbassi e gli altri archi, ovviamente, a scalare sul piano numerico, come di norma). La Philarmonia è una delle migliori orchestre al mondo: ancora una volta si sono ammirate belle sonorità (in tutte le sezioni) ed una eccellente fluidità: una lettura lineare e pacata (niente dionisiaci eccessi nel temporale, alla Stokowski, per capirisi), come se Salonen desiderasse – non torto – porre in luce la derivazione ancora tutta settecentesca del pur innovativo capolavoro beethoveniano: che dallo Haydn delle «Stagioni» attinge tutta una campionatura di immagini e topoi ‘naturalistici’, sia pure con segno affatto nuovo, si sa. Insomma una lettura non solo legittima, ma pienamente convincente e funzionale.
Della «Quarta» ha invece esasperato molto i contrasti agogici, oltre che dinamici, con quella misteriosa scheggia di Adagio iniziale (quasi pre mahleriano) forse eccessivamente estenuata, ed il gocciolio dei pizzicati che aveva un che di arcano di fatto affascinante, ancorché sorprendente (un poco esasperato anche il tempo centrale, ma con ammirevoli cantabili ed una stupefacente trasparenza di tramatura). Salonen ha per contro affrontato l’Allegro d’esordio con una forza ed una lucentezza uniche. Senza troppo aderire ai metronomi che Beethoven aggiunge in partitura (peraltro solamente nel 1817). Certo a tale velocità supersonica alcuni dettagli rischiano di rimanere come centrifugati nel vortice. Per dire: il delizioso canone del secondo tema tra clarinetto e fagotto è scivolato via in un amen, e dire che basterebbe un piccolo rallentando, un respiro, una cosa da nulla… Però con una simile compagine sono cose che ci si può permettere sapendo di poter contare su una macchina perfettamente oliata. Robusto anche lo Scherzo e ‘macchinistico’ (quasi caricaturale) il Finale che a siffatta velocità acquista un che di nevrotico. Ma forse tale aspetto a ben guardare è insito nella partitura: «chissà cosa avrebbe pensato Beethoven…», chissà cosa penseranno i lettori, dacché la frase appena scritta è una di quelle da evitare accuratamente. È noto che una interpretazione si carica di fascino al di là delle intenzioni dell’autore stesso: certo deve essere coerente e motivata. E la lettura di Salonen a nostro avviso lo è, come una sorta di tesi: e la tesi vistosa è che nella «Quarta» già si anticipano quegli aspetti di euforia orgiastica, dionisiaca, poi destinati a conflagrare soprattutto nella «Settima» e nell’«Ottava». Insomma una interpretazione da intendersi come una lezione di analisi. Così almeno l’abbiamo intesa e l’intera sala è esplosa alla fine in un lungo applauso liberatorio a significare l’apprezzamento per il singolare magnetismo ed appeal della bacchetta (e dell’intera orchestra, s’intende).
Orchestra che a centro serata ha proposto altresì in prima italiana «Rivers to the Sea» del trentottenne Joseph Phibbs: pagina dalla ingegnosa struttura formale, con due movimenti contrapposti ed accorpati, un interludio introspettivo e materico e nuovamente due tempi conclusivi accoppiati. La scrittura di Phibbs richiederebbe un’analisi attenta e, soprattutto, occorrerebbe riascoltare più volte il brano con tanto di partitura. Pur tuttavia, per quanto può valere riferire le impressioni di ascolto dal vivo, e con beneficio di inventario e necessità di verifica, la sensazione è che ci si trovi di fronte ad un musicista che sa scrivere bene per orchestra e sa sfruttare al meglio la timbrica. Certo indulge qua e là in calligrafismi e si autocompiace un poco di certe atmosfere; del resto chi resisterebbe alla ghiotta occasione di scrivere su commissione proprio per la Philarmonia? Occasione preziosa per porre in luce, come in una vetrina policroma, tutte le sezioni. Phibbs si rivela un valido melodista, ma nel contempo maneggia bene le poliritmie con echi anche da altre culture (insomma la sensazione è quella di un linguaggio eclettico e trasversale, nel complesso gradevole). Le emozioni non sono mancate. Qualche eccesso di dilatazione nel finale «Neon with Sunrise» con quel delirio di percussioni volto a delineare un panorama urbano, un pulsante orizzonte newyorchese (del resto s’ispira ad un racconto di Sara Teasdale). E non manca nemmeno una strizzatina d’occhio all’universo del jazz sinfonico, a Bernstein&C, ma con garbo: il tutto confezionato con gusto. Per una volta un brano di musica contemporanea non banale, ma nemmeno urtante e che il pubblico (il grande pubblico, non gli addetti ai lavori ed i soli critici) ha mostrato non solo di non rifiutare, ma addirittura di gradire. Ed è molto.
Del colto Rilling occorre dire tutto il bene possibile, tra i massimi esperti di Bach: conosce le «Passioni» come le sue tasche e infatti dirige per intero a memoria e con una partecipazione, una interiorità davvero uniche. Lo avevamo ammirato a Torino alla guida della Rai in primavera alle prese con la più intimista «Johannes». Ora con la più monumentale e ‘teatrale’ «Matthäus» ha offerto un’interpretazione a dir poco sublime per profondità di lettura, cura dei dettagli e capacità di coinvolgimento emotivo. Nuovamente, come già mesi fa, abbiamo apprezzato assai Lothar Odinius (tenore nel ruolo dell’Evangelista) per la vastità di corde di recitazione conferite ai molti recitativi, con un peso giusto ad ogni singola nota, enfasi giusta per i passi che lo necessitano, intimismo per i tratti pietisti e patetici e via dicendo. Bene il baritono Klaus Hager per come ha disimpegnato con autorevolezza il ruolo del Cristo e molto bene Markus Eiche (baritono, nel ruolo di Pilato e nella arie). Nuovamente a Torino, oltre a Odinius, anche il soprano Julia Sophie Wagner e il contralto Ingeborg Danz che nelle arie concertate hanno dato davvero il meglio di se stesse. Appropriati gli strumentisti della Bachakademie, lontani da sterili filologismi, ma nel contempo abili nel restituire alla partitura la giusta patina, pur nel contesto di un teatro dall’acustica ben diversa dalla lipsiense San Tommaso. Applausi vivissimi, a notte ormai fonda, un vero trionfo: e non è cosa da poco, con un Regio gremito e in pratica nessuna fuga di pubblico. Segno che un simile e universale capolavoro sacro – fuori dal tempo – continua tuttora a comunicare all’uomo moderno, paradossalmente anche al non credente, con la forza dell’autenticità. Stupendi per compostezza e commovente partecipazione i Corali. E vien voglia di cantarli tutti, in sala, con la partitura sotto il naso, se non fosse che il vicino ti guarda male e ti senti un poco in imbarazzo perché leggi nel suo sguardo sussiegoso l’interrogativo implicito: «…che, facciamo il karaoke con Bach»? Ma è quasi inevitabile cedere alla tentazione di sentirsi parte integrante di un universo spirituale che ci accomuna tuttora al sommo Kantor.
© Riproduzione riservata