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Il primo appuntamento del ciclo straordinario “Il Concerto per pianoforte e orchestra”, tenutosi con ottimo successo al Teatro alla Scala, ha visto più di una volta prevalere la spiccata individualità del solista sulle scelte del giovane direttore
di Luca Chierici
I l primo dei tre appuntamenti del ciclo straordinario intitolato “Il Concerto per pianoforte e orchestra”, in realtà leggibile come omaggio ai settant’anni di Daniel Barenboim, si è tenuto l’altra sera a teatro al completo e con un ottimo successo. Pagina attorno alla quale gravitava il resto del programma erano i brevissimi Dialogues II dove il decano dei compositori americani, Elliott Carter, illustrava una specie di condensato della propria genialità, diretto omaggio per il compleanno di Barenboim. Dialoghi tra pianoforte e orchestra dove in realtà il primo prende spesso il sopravvento e dove si ascoltano, come spesso avviene in Carter, micro-frammenti che ci riportano a realtà della musica colta molto lontane nel tempo. Non abbiamo ascoltato qui, per volere del compositore, un pianoforte primus inter pares, come per altri motivi non lo avevamo ascoltato in precedenza nel Primo concerto di Brahms.
La sera del 9 aprile del 1962, a New York, Leonard Bernstein aveva addirittura fatto precedere l’esecuzione dello stesso concerto, con Glenn Gould, da una dichiarazione verso il pubblico nella quale egli manifestava esplicitamente il suo disaccordo nei confronti dei tempi scelti dal pianista (Gould li voleva estremamente lenti). Dudamel ha attaccato l’altra sera il capolavoro brahmsiano a un tempo diciamo così stabilito dalla migliore tradizione, ma Barenboim gli ha risposto con una entrata molto più moderata che ha accentuato la non proprio chiara sintonia di idee tra i due. Il pianista ha preso del tutto le redini in mano nel successivo Adagio, nel quale si sono ascoltate cose egregie, ed entrambi hanno portato alla fine in porto il Rondò conclusivo con maggiore spirito di corpo. Anche il Concerto n. 1 di Bartók non brillava per calibrazione perfetta tra solista e orchestra, là dove la precisa sincronizzazione tra i due è elemento imprescindibile per districare le continue variazioni di metrica, soprattutto nel primo movimento. In compenso il pianoforte di Barenboim faceva ascoltare dettagli inediti, reminiscenze quasi lisztiane, che riscattavano la perdita di quella meccanicità di scansione cui siamo di solito abituati.
Da questa prima serata si è potuto a nostro parere capire come l’individualità del solista – forse una contraddizione in termini quando si parla di “concerto” – è elemento costitutivo di molte proposte del Barenboim pianista e siamo molto curiosi di verificare a breve come questo atteggiamento verrà più o meno adattato alla personalità degli altri due direttori che si succederanno sul podio in questa attesa trilogia.
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