Recensione • Il violoncellista russo si è esibito a Milano con la pianista Monica Cattarossi. In programma tre classiche sonate del repertorio: Brahms, Šostakovič, Rachmaninov
di Luca Chierici
B en noto al pubblico francese, e ancor prima a quello svizzero-internazionale del Festival di Verbier e di Lugano, il violoncellista russo Alexander Kniazev è finalmente approdato anche da noi grazie alla sempre solerte attenzione della Società dei Concerti di Milano. E dire che si tratta di un solista giustamente acclamato almeno dal 2004, quando appunto Verbier lo lanciò a fianco di un accompagnatore del calibro di Kissin per una non dimenticata Sonata di Rachmaninov. E ancora Parigi, Nantes e Montpellier lo hanno ospitato negli ultimi anni come elemento di spicco nel repertorio cameristico ancora con Kissin o Berezovsky e in formazioni più ampie per affrontare le gemme del repertorio romantico.
Non piacerà Kniazev a chi, nel campo del violoncello, ha come riferimento il suono puro, immacolato, seducente di un Pierre Fournier, né quello più robusto ma sempre pulito di Rostropovich. Kniazev ha un approccio indiscutibilmente “rude”, sa far cantare il suo bellissimo strumento (uno Stradivari appartenuto nientemeno che a Gregor Piatigorsky) nel registro medio-grave, un po’ meno in quello acuto, ma può anche ricavarne effetti non piacevolissimi a causa dell’impeto con il quale l’archetto si abbatte sulle corde allo scopo di raggiungere un volume di suono eccezionale. Ma la musicalità di Kniazev è indiscutibile e lo si è capito anche l’altra sera quando ha affrontato un programma sonatistico molto impegnativo che spaziava da Brahms (l’op.99 in fa maggiore) a Šostakovič (la Sonata op.40 in re minore) e Rachmaninov (l’op.19 in sol minore). Assente l’accompagnatore designato, il pianista Carlo Guaitoli, Kniazev è stato coadiuvato dalla bravissima Monica Cattarossi, che non solo si è sobbarcata all’ultimo momento una fatica considerevole, ma si è rilevata strumentista agguerritissima e assai musicale. Ancor più se pensiamo che non è facile per un pianista arginare e affiancare una natura così debordante come quella del violoncellista russo, che ha impressionato fin dall’inizio il pubblico con una lettura tesa e appassionata del capolavoro brahmsiano. L’attacco in tremolo del pianoforte e la risposta perentoria del violoncello diventava così uno di quegli incipit che da soli caratterizzano tutta una serata, proseguita con una altrettanto vibrante e nervosa lettura della sonata di Šostakovič, problematica come sempre nelle sue multiformi sfaccettature. In Rachmaninov sarebbe stato più consono alternare un’approccio più cantabile (come si fa a dimenticare il duo Rostropovich-Horowitz o qui, nella stessa sala, Fournier e Magaloff in stato di grazia?) che la Cattarossi invano tentava di proporre a un sempre più infervorato cellista, che ha infine sfogato tutte le proprie valenze virtuosistiche in una versione ad hoc delle variazioni paganiniane sul famoso tema del Mosé, precedute da un Lied brahmsiano scelto tra quelli trascritti dallo stesso Kniazev.
Pubblico come si suol dire in delirio, anche nell’applauso fuori posto e nell’oramai immancabile concerto parallelo di telefonini.
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