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Concerti • Trascinante Piazzolla e una scelta anticonvenzionale per il resto del programma, che l’ensemble di Gidon Kremer interpreta con qualità elevatissima, sempre. Tra accenti New Age, jazz e Vivaldi
di Attilio Piovano
Un trascinante Piazzolla, e si trattava del celeberrimo Verano Porteño, da Le quattro stagioni a Buenos Aires, a Torino lunedì 18 febbraio, per la stagione dei Concerti dell’Associazione Lingotto Musica, (Auditorium ‘Agnelli’) in chiusura di serata, al termine del bel concerto della Kremerata Baltica guidata dal suo fondatore, il fuoriclasse Gidon Kremer. Concerto singolare, per intero concepito attorno al concetto di estate (e con una selezione di brani che costituiscono il nerbo del festival di Lockenhaus dove è stata fondata la Kremerata, brani dedicati a Kremer stesso ed al suo straordinario ensemble). Quanto al superbo brano di Piazzolla, rielaborato da Leonid Desyatnikov, lo si è ancora una volta apprezzato per la sua verve inarrivabile, i suoi ritmi indiavolati e la sensualità del tango, ma anche quegli struggenti languori che di Piazzolla sono una vera e propria cifra, gli echi bachiani e le ruvidità di Bartók, certe reminiscenze stravinskijane e le riconoscibili pseudo citazioni vivaldiane (il Concerto dell’Estate dalle Stagioni), che qua e là si coagulano attorno ad assonanze jazz abilmente contaminate a molte altre componenti. Il tutto compositivamente governato da una mano salda – quella di Piazzolla – e da una solida cultura. E Kremer e i suoi 27 superlativi strumentisti dalla tecnica solidissima, dall’affiatamento perfetto e dalla singolare versatilità (tra i cui meriti vi è quello di aver abbattuto le barriere tra i generi e aver creato un nuovo tipo di repertorio con opere inusuali e trascrizioni curiose), ne hanno dato un’interpretazione piena di brio e di eccitato vigore. Al termine di un concerto fuori dagli schemi.
Dove non tutto, però, occorre ammetterlo, era allo stesso livello e sullo stesso piano (quanto a contenuti s’intende, mentre la qualità dell’interpretazione si mantiene sempre elevatissima). Ecco allora che se Piazzolla sfora con la sua personalità prorompente, non così gli altri autori; risalendo dal fondo della scaletta, per dire, Flowering jasmin di Georgs Pelecis rivela un eclettismo in bilico tra Pärt e certo minimalismo, ma talora sconfina nella pur ben confezionata musica di ambientazione (se non colonna sonora). Dawn da Sun Tryptich (2010) della pur dotata bulgara Dobrinka Tabakova oscilla tra tonalismo esasperato e accenti New Age, sfiorando pericolosamente la monocromia. Divertente la trascrizione iconoclasta e impertinente da parte del gigione Raskatov (un tipo che ha scritto pagine dal titolo Cinque minuti della vita di Mozart non può essere che simpatico), trascrizione di alcune delle Stagioni pianistiche di Cajkovskij: si trattava di Luglio, ovvero del Canto dei falciatori (ed ecco allora gli allegri cameristi cantare essi stessi, e pareva quasi presa in giro di certi canti nazional popolari di lavoratori e proletari della vecchia Unione delle Repubbliche Sovietiche), ma un cluster cacofonico mette fine al brano sfociando nella cantabilità di Agosto (La messe), da ultimo La caccia (Settembre) con una tromba stridente e grottescamente ironica. Divertente, sì, ma nulla più. Così pure l’agrodolce Cucù di Leonid Desyatnikov, ma Saint-Saëns nel Carnevale degli animali ha saputo essere più spiritoso, e dello stesso autore la vivace Tolontnaya, canto per propiziare la fertilità della terra, coi suoi ritmi vivaci e certe assonanze da danza gaelica ben confezionata, ma dilagante in un eclettismo un po’ anodino.
In apertura s’era ascoltato di Barkauskas Avanti per archi, pagina dalla ricca varietà di timbri e dai molti modi di attacco del suono, ma purtroppo eccessivamente dilatata e dispersiva. E la dilatazione eccessiva ammorba anche il troppo vasto Secondo concerto per violino, archi e sintetizzatore di Philipp Glass (prima esecuzione a Toronto 9 dicembre 2009, solista il dedicatario Robert McDuffie). Un pezzo a corrente alternata (che Kremer suona stupendamente) con passi tranquillamente tonali, e pur mai prevedibili, o quanto meno banali. Alterna emersioni solistiche di bachiana espressività a zone cameristiche caratterizzate da quella ripetitività ipnotica che di Glass è la caratteristica più vistosa. Nel Movement II si riconosce l’intento di rifarsi ad un’arcaica Ciaccona, in un’atmosfera cupa e livida di sicuro fascino, ma delude e ingenera saturazione per l’eccessiva ampiezza. Insomma ci vuol altro a tener su il tutto per così tanto tempo (l’intero Concerto dura quasi 40 minuti). Curioso poi l’impiego del sintetizzatore che ‘mima’ ora un clavicembalo, ora un basso di archi, più tastiera che non strumento elettronico (insomma niente elaborazioni live o simili). Armonicamente si mantiene su territori ecletticamente ampi e da ultimo sconfina in un linguaggio dai ritmi forsennati e dal singolare mix stilistico che strizza l’occhio a Piazzolla ed alla musica ungherese, a certo ‘900 ed a generi ‘altri’. Qualcuno dice che si tratta di un’operazione un poco birbacciona (o per esser più cattivelli, un poco ruffianesca). Certo il brano (specie in chiusura) ha innescato applausi e piace innegabilmente ad una certa fascia di pubblico per la sua aproblematicità e per quelle assonanze a Vivaldi che in molti hanno riconosciuto.
E Vivaldi (dalle cui Stagioni muove tutta l’operazione ‘estiva’ di tale succulento programma) ha ricevuto il giusto onore con l’Estate RV 315 proposto in una versione di fascinosa allure, ipercinetica ed ipertrofica; protagonista il vibrafonista Andrei Pushkarev: solista dalle straordinarie capacità (un tocco delicato e morbido ed una tecnica espertissima), meno convincente come trascrittore, con inserti talora un poco stridenti (scale esafoniche, quinte vuote ed altro). Detto ciò, ben vengano serate anticonvenzionali, ancorché come in questo caso l’eccessiva dilatazione dei brani (e in assoluto della durata del concerto stesso) abbiano messo a prova il pubblico. In chiusura un solo bis, sorta di dolce e notturna berceuse e si trattava di Yellow Button del georgiano Giya Kancheli.
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