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Opera • Uno spettacolo memorabile per coerenza, drammaturgia e sensibilità musicale quello allestito al Mozarteum da Marshall Pynkoski e Marc Minkowski. Villazón interpreta un Silla di rara intensità, tutte all’altezza le coprotagoniste femminili a cominciare dalla Peretyatko
di Riccardo Rocca
[IL] Lucio Silla allestito dalla Mozartwoche del Mozarteum di Salisburgo, che verrà ripreso l’estate ventura sia all’interno dei Salzburger Festspiele sia a fine agosto al Musifkfest di Brema, è una produzione pensata e realizzata con cura e attenzione per ogni dettaglio.
Alcune importanti realizzazioni discografiche di Hager e Harnoncourt avevano già ampiamente diffuso i meriti di un titolo composto nel 1772 da Mozart sedicenne per il Teatro Regio Ducale di Milano prima che diventasse la Scala, ma forse mai come ora era emersa la cifra di un’opera al cui protagonista appartiene una sensibilità quanto mai moderna ed interessante per il nostro tempo. E chi potrebbe, sotto tale punto di vista, incarnare meglio di Rolando Villazón un dittatore innamorato, a disagio con il proprio ruolo autoritario, che finirà per lasciarsi ai sentimenti di perdono e di libertà rinunciando al proprio ruolo di governo? Ma non solo la parte gli dona perfettamente per personalità: la natura vocale di un ruolo che Mozart pensò per il tenore Bassano Morgnoni prevede infatti una tessitura che insiste nel registro centrale e che è complessivamente piana. Il gioco espressivo si sviluppa con Villazón nell’uso dei colori, delle sfumature e dell’accento, con momenti di rara intensità. Momento memorabile della sua interpretazione è stata indubbiamente l’ultima aria “Se al generoso ardire”, per la verità non di Mozart, ma prelevata da un successivo Lucio Silla (1775) di Johann Christian Bach. Naturalmente è lecito discutere, in una prospettiva di rigida filologia, quale tipo di legittimazione accordare a simili decisioni; accade tuttavia che dibattiti su questo livello assumano una valenza talmente misera e ridotta rispetto agli squarci umani che il teatro può offrire, per cui alla fine finiscano per prevalere le ragioni di quel “tutto coerente” che rende uno spettacolo memorabile. L’aria aggiunta, con obbligato di oboe, fagotto e corno – alzatisi in piedi, quasi a formare un ideale quartetto col protagonista – ha costituito infatti il culmine espressivo di tutta l’opera, con una cadenza lunghissima che, cantata a cappella da un Villazón adagiato sulla balaustra della buca d’orchestra, è risuonata nella sala quasi come il lamento smarrito dell’uomo moderno.
Gran parte dei meriti dello spettacolo vanno chiaramente a Marc Minkowski e al regista Marshall Pynkoski, la cui assonanza dei nomi sembra non evocare per caso una consonanza di intenti: la decisione di aggiungere un’aria spuria per ampliare la dimensionalità del personaggio di Silla è solamente la punta più evidente di un lavoro minuzioso su ogni nota ed ogni istante della musica. Sparita la parte di Aufidio, come secondo tagli tradizionali è già avvenuto in altre rappresentazioni, la realizzazione visiva del regista presenta un’ambientazione classica ma essenziale, teatro di un movimento scenico che fonde con raffinatezza, coerenza musicale e senso drammaturgico la danza e l’uso delle luci. Di fronte ad arie lunghe, fitte di virtuosismi, Pynkoski sfrutta splendidamente i momenti di sola orchestra per muovere i personaggi, cambiando illuminazione o introducendo scene parallele che dialogano pertinentemente e senza fronzoli con la drammaturgia. Tutto ciò con la piena complicità di un Minkowski che, con un dominio quasi maniacale di ogni dettaglio dell’orchestra, ha offerto ad ogni immagine il perfetto commento espressivo: Les Musiciens du Louvre di Grenoble sono una sua creatura, la cui eccezionalità non dipende tanto dall’uso di strumenti “originali”, quanto da un vero e proprio affiatamento e lavoro di gruppo rispetto al quale, oggi, la maggior parte delle orchestre tradizionali – anche le più rinomate – sembrano molte volte impallidire. Straordinaria ed in linea con il livello complessivo anche la prova del Salzburger Bachchor.
Di alto livello anche il quartetto femminile, diviso tra le vocalità belcantistiche di Olga Peretyatko (Giunia) ed Eva Liebau (Celia) e quelle di stampo maggiormente barocco di Inga Kalna (Lucio Cinna) e Marianne Crebassa (Cecilio). Pur in evidenti condizioni di salute non perfette, la voce vellutata della Peretyatko ha superato con sbalorditiva precisione e disinvoltura le difficoltà virtuositiche di una parte a cui nei decenni passati solo Edita Gruberova poteva rendere giustizia; Eva Liebau possiede pure una tecnica solidissima ed è capace di far trasparire alcune tinte di dolcezza alla sorella del dittatore. Canto del tutto diverso, invece, sia quello di Inga Kalna, spericolato e ai limiti delle possibilità di una tecnica meno avvezza alle acrobazie ad alta quota, ma tuttavia molto efficace nella resa del personaggio; sia quello di Marianne Crebassa, giovane interprete i cui slanci e intemperanze sembrano rendere giustizia ad un ruolo che Mozart scrisse per il lodatissimo castrato Venanzio Rauzzini.
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