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Opera • Le Settimane musicali propongono una versione inedita del capolavoro mozartiano, con recitativi accompagnati ottocenteschi: promesse e filologia barcollano, ma lo spettacolo ha molti pregi
di Francesco Lora
Mozart e Le nozze di Figaro, ma non come tutti le conosciamo. A Vicenza, da una decina d’anni, le Settimane musicali al Teatro Olimpico si sono specializzate nell’allestire titoli d’opera celebri, ma in loro versioni rare, rarissime, tramandate da chissà quali manoscritti, e testimoni di una tradizione vivace, autentica, multiforme, secondo la quale un diverso luogo di rappresentazione o una diversa compagnia di canto comportavano l’adattamento della partitura, per mano del compositore o di un collaboratore. Si sono così avuti, a confronto, i due Don Giovanni di Praga 1787 e di Vienna 1788, con qualche scena in più o in meno; Il flauto magico di Praga 1794, in versione ritmica italiana e con recitativi secchi; L’italiana in Algeri e Il barbiere di Siviglia di Vicenza 1813 e 1825, con cavatine e rondò mutati; Il turco in Italia di Napoli 1820, con dialoghi parlati e la parte di Don Geronio in dialetto napoletano; il Don Pasquale adattato alla voce mediosopranile di Pauline Viardot García; e Il ratto dal serraglio revisionato da Peter Lichtenthal nel 1838, destinato alla Scala ma mai rappresentato.
Quest’anno la rassegna vicentina ci aveva promesso una ricercatezza della quale leccarsi i baffi: Le nozze di Figaro, appunto, così come rappresentate al Teatro di S. Carlo di Napoli nel 1814. In locandina, 199 anni fa, vi erano nomi da far saltare sulla sedia i rossiniani doc: il tenore Manuel García come Conte d’Almaviva – due anni dopo fu lui a creare lo stesso personaggio nel Barbiere – e Isabella Colbran come Contessa. Cosa v’è di diverso rispetto alle Nozze originali di Vienna 1786? Molte arie mutate, tagliate o inserite, e tutti i recitativi secchi – già proibiti da un editto di Murat – sostituiti con recitativi accompagnati. A Vicenza, nelle quattro recite del 7-13 giugno, i conti non sono però tornati: lungi dal corrispondere al libretto di Napoli 1814, la partitura eseguita coincideva infatti con quella corrente, se si eccettua la sola presenza dei recitativi accompagnati. La fonte adottata, oggi nella biblioteca del Conservatorio di S. Pietro a Majella, è dunque un manoscritto non riferibile a Napoli 1814, e per giunta mutilo dei primi due atti (ciò ha reso necessaria la ricostruzione dei recitativi mancanti; i lettori più curiosi potranno liberamente consultare qui online il manoscritto digitalizzato).
La promessa disattesa ha innescato qualche giusto mugugno da parte dello spettatore esperto, tanto più che la curiosità intorno ai recitativi accompagnati si è volatilizzata dopo i primi minuti d’ascolto: si tratta di pagine ricalcate su quelle originali (melodia e armonia), ma offese da ritocchi grossolani che deformano i versi sciolti di Lorenzo Da Ponte. Ciò detto, cos’è rimasto d’interessante nello spettacolo vicentino? Molto. V’era in primo luogo il direttore Giovanni Battista Rigon alla testa dell’Orchestra di Padova e del Veneto: egli ha condotto un lavoro di encomiabile accuratezza e di nuova analisi su un testo musicale fin troppo noto, e dunque esposto a una lettura banalizzata dall’abitudine. Con lui sul podio, dal tessuto sinfonico sono riemersi smarriti controcanti di legni, evocativi echeggi di corni e bruschi graffi di trombe, fino alla scelta di tempi assai mossi e spesso rapidissimi, i quali forse spiaceranno a chi ha in orecchio un «Deh vieni, non tardar, o gioia bella» più notturno e indugiante, ma che fanno mulinellare a pieni giri la folle giornata di Beaumarchais. Eccezionale è stata poi l’attenzione posta nello studio dei recitativi, tutti comprensibili fino all’ultima sillaba e tutti colorati della giusta inflessione teatrale: raramente se ne sono ascoltati di migliori, e il merito va equamente diviso tra il concertatore, la compagnia di canto e il regista Antonio Petris.
A quest’ultimo spettava il difficile compito di dirigere l’azione nel sacro spazio palladiano del Teatro Olimpico. Ricordiamo quando, nel 1997 al Teatro Comunale di Bologna, Gianfranco De Bosio scelse di ambientare le sue Nozze di Figaro davanti a una scena che riproduceva quella dell’Olimpico. Petris agisce al contrario: dispone del vero Olimpico e vi rappresenta uno spettacolo di teatro tutto contemporaneo. La lunga scena ospita nel contempo l’orchestra e tutti i luoghi dell’opera, connessi dalle relative porte: dietro l’orchestra vi è l’appartamento del Conte, davanti quello di Figaro e Susanna, a destra quello della Contessa, a sinistra il giardino; d’un colpo, la struttura spaziale creduta possibile solo in un film-opera, e tanto pregnante nelle Nozze, risulta realizzata con la massima naturalezza su un palcoscenico tanto suggestivo quanto anomalo per il teatro lirico. Gli elementi scenici sono ridotti al minimo: una poltrona dove il Conte può rilassare le proprie smanie, talvolta al telefono con un ignoto confidente; un sofà dove Susanna può nascondere Cherubino e posare per servizi fotografici nuziali; un divano e uno scrittoio dove una depressissima Contessa, circondata dalle borse di acquisti alla moda, può alternare superalcolici e psicofarmaci. Il gesto degli attori e la caratterizzazione dei personaggi sono messi a punto con acume millimetrico, e toccano l’apice in una Marcellina invadente, manesca e iperprofumata, e in un Cherubino che è il ritratto perfetto dell’adolescente discotecaro e proto-sfattone, con giubbotto di ecopelle pseudoconsunta, All Star ai piedi e immense cuffie auricolari di ultima generazione. Lode al costumista Mario Nateri, che con l’abito sa fare la persona.
Ottimalità di attori e personaggi significa anche bontà della compagnia di canto. Stupendo è l’assortimento della principale coppia femminile. Da una parte la Contessa di Giacinta Nicotra, malinconica e riservata nel portamento e nel fraseggio, un poco brunita nell’incarnato e nel timbro, efficace sia negli abbattimenti psicologici sia negli opposti toni scherzosi, nonché ancora nel legato e nella vocalizzazione di cavatina e rondò. Dall’altra parte, l’iperbolica Susanna di Giulia Bolcato (classe 1990), soprano lirico-leggero di splendida luminosità timbrica e di già scaltrita linea belcantistica, e vera primadonna buffa degna – sia nei toni smorfiosi e patetici, sia in quelli complici e brillanti – dei modelli vocali e attoriali di Graziella Sciutti e Luciana Serra. Corretta ma non entusiasmante è stata per contro la principale coppia maschile, formata da Filippo Morace come Figaro e da Luca Dall’Amico come Conte d’Almaviva: il primo restituisce più il tipo del basso buffo che non un personaggio peculiarmente frastagliato, mentre il secondo dà luogo a una figura umana timida, turbata, spaesata, in sé non priva di interesse, ma che forse ha qualcosa da condividere con l’indole dell’interprete. Puntuali nel canto ma soprattutto effervescenti nella recitazione sono stati, infine, Margherita Settimo come Cherubino, Candida Guida come Marcellina, Claudio Levantino come Bartolo, Minni Diodati come Barbarina e Alberto Spadarotti come Antonio. Estremo è stato il puntiglio filologico di far cantare a quest’ultimo, atto II scena X, «garofàni» anziché «garòfani», esibendo l’errore di accentazione commesso da Mozart stesso e automaticamente emendato da ogni cantante che conosca la lingua. E drammaturgicamente claudicante è stata l’idea non solo di assegnare le parti di Basilio e di Don Curzio a un solo cantante, Gian Luca Zoccatelli, secondo una prassi avviata già alla “prima” viennese, ma anche di farne un solo personaggio, che nel processo Figaro-Marcellina dovrebbe dunque reggere i ruoli incompatibili di testimone e di giudice. Ma forse siamo al pelo nell’uovo.
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