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Recensioni • Accompagnata dall’Orchestra da Camera di Mantova diretta da Carlo Fabiano la pianista portoghese ha interpretato i concerti K.466 e K.488
di Luca Chierici
Come si fa a non voler bene a Maria João Pires? La pianista portoghese dal fisico minuto che si avvicina alla tastiera con l’umiltà di chi entra davvero nei significati reconditi della musica e si pone al servizio di quella con una economia di mezzi da manuale, ha di nuovo fatto centro l’altra sera per il festival MiTo eseguendo nel Conservatorio di Milano due concerti di Mozart con l’Orchestra da Camera di Mantova, guidata dal primo violino Carlo Fabiano. La Pires, quasi settantenne, sta sempre più concentrando la propria attività su un repertorio limitato di concerti per pianoforte e orchestra che ruotano attorno all’amatissimo K.466 e lo fa seguendo una tradizione che mescola l’approccio neoclassico che fu di Gieseking e Lipatti a una lettura emotivamente più partecipe che si poteva già cogliere nelle interpretazioni di Clara Haskil. Il suono della Pires è sempre molto bello ma si è ulteriormente ridotto di volume, fatto questo che avrebbe richiesto un più accorto accompagnamento da parte dell’Orchestra di Mantova. Quest’ultima ha messo in campo tutti gli accorgimenti propri della moderna filologia, ma poco si è curata dell’equilibrio con la solista, giungendo a volte sia a momenti di eccessiva espansione sonora che a conflitti dal punto di vista espressivo.

Dal canto suo la Pires si immedesimava a tal punto nel suono mozartiano da sottolineare visibilmente la differenza tra quello e l’impetuosità richiesta dalle famose cadenze beethoveniane scritte per il Concerto in re minore: un dettaglio che solamente una grande pianista come lei poteva suggerire all’ascoltatore. Certo qualcuno preferirà un approccio a Mozart più sanguigno, che sottolinea il preromanticismo irruente nel K.466 e nel movimento lento del K.488, ma il panorama interpretativo è in questo caso talmente vasto da lasciare posto a qualsiasi proposta che in definitiva non vada troppo al di là dei significati presumibilmente attribuibili al testo originale. L’indole affettuosa del pianismo della Pires, che conquista anche lo spettatore più refrattario, si è riproposta tal quale nel bis che la solista ha concesso accompagnando il giovane clarinettista dell’orchestra, Aljaz Begus, nel primo dei Fantasiestücke op.73 di Schumann, altro autore da lei prediletto. Qui la scansione di tempo molto lenta (l’originale parla solamente di “tenero, con espressione”) ha avuto come risultato l’immersione in un mondo poetico totalmente differente da quello mozartiano e ha ancora una volta sottolineato il carattere sognante e il melos suggestivo che scaturiscono come d’incanto dalle mani della pianista portoghese.
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